UMANOMETRO


Legno storto dell'umanità- Kant a Palermo


 A bordo del mio consueto treno del sabato mattina, osservo migliaia di volti che non hanno niente in comune, ad eccezione del cellulare. Sempre più raro diventa incontrare un mio simile senza uno smartphone tra le mani.  

Che questa mutazione antropologica possa interrompersi è impossibile anche solo immaginarlo. 

Bisogna prepararsi a orizzonti ibridi "nuovi"- in verità, siamo già immersi in essi da parecchio-, in cui forse la SPIRITUALITA' soltanto potrebbe salvaguardarci dal dimenticare per sempre quella specificità solo umana di superare i dilemmi interiori ed i danni fisici personali, per iniziare a patire il dolore altrui, scoprirlo simile al proprio e così manifestare sincerità, dare sollievo, farsi testimoni di solidarietà reale nei confronti di chi soffre distante, ma anche vicinissimo a sé stessi. 

Le sventure, gli ostacoli e i colpi di sfortuna sono un vulcano accessorio in un'esistenza che trabocca d'incontri.

Ma questi incontri bisogna imparare a farli. E invece ci stiamo del tutto dimenticando come si fa. Eppure basterebbe scolpirsi dentro questa semplice frase plotiniana:

"Perché uscite? Per trovare la via di ritorno"

O anche ascoltare parole come queste:

"Frantumare le distanze/ Superare resistenze/ Riconoscersi per creare/ Camminare senza chiedersi perché". Cantava così l'immenso Paolo Benvegnù nella splendida "Cerchi nell'acqua".


Chi non corrisponde alla propria persona, però, da tempo sembra diventato del tutto inavvicinabile,  alieno, altro, completamente straniero, perché tutto ciò che va oltre sé stessi non si cerca di afferrarlo in alcun modo. Pare, insomma, non si riesca più a percepire niente che non sia il proprio pallido riflesso in un selfie o in un reel.

 In questo senso, mi sembra che lo scenario attuale produca da qualche decennio monadi, finestre chiuse - come le ha intese il geniale Leibniz- dalle quali però oggi nemmeno osserviamo più l'esterno.

 Quest'ultimo non ci interessa, perché, in fondo, è come uno scenario virtuale scrollato sul cellulare, con cui intrattenersi a qualunque ora ed in qualunque luogo è sempre possibile, ma con cui non è richiesto intervenire, se non utilizzando un linguaggio binario o qualche emoticon.

 Così, davanti ad un incantevole tramonto non ci sono più cantori di poesie, ma solo spettatori di sensibilità e ricchezza espressiva assai limitata, che potranno solo dire "wow" o digitare rapidamente tre, cinque, decine di 😯. 

Ed anche davanti ad un volto che piange, ad uno sguardo imbronciato o a degli occhi colmi di disperazione, spesso non siamo più in grado di domandare nulla. Se lo incrociamo nella nostra traiettoria, abbassiamo lo sguardo e torniamo a farci in fretta i fatti nostri. Salvo poi riempire i social di tutto il nostro sdegno per episodi di cronaca che quotidianamente descrivono un mondo impazzito, violento, pieno di tragedie senza fine.

A questo depauperamento cognitivo, linguistico ed emotivo ci siamo progressivamente abituati, perdendo la forza vibrante dello scandalo. 

Il mio compito allora è forse quello di restare petulante ogni volta che posso, per tenere viva quella forza ed incitare alla rivolta, alla ribellione. In nome di quale "umanità" è difficile stabilirlo.

"Codesto solo oggi possiamo dirti

Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo." 

Eugenio Montale, ultimi versi di Non chiederci la parola, 1923

L'era tardo-capitalista in cui ci è toccato vivere è portatrice di una disumanità intollerabile che è, in definitiva, il più pericoloso, nefasto, insostenibile riflesso del Capitale nelle nostre esistenze.

La rincorsa affannata al profitto trascura, fino a rendere quasi del tutto inessenziale, una delle domande principali su cui si gioca l'esistenza dell'essere umano: Chi è il mio prossimo?  

Basta, per esempio, un'indagine/denuncia accorata per sentirsi vicina/o ad un popolo martoriato per dare prova che siamo ancora umani? E quando si tratta in modo aggressivo o con indifferenza chi si ha accanto,  non si sta forse replicando quasi un modello Netanyahu, non proprio edificante?

So di esagerare. Ho pensato poco fa che per mettermi a tacere sarebbe bello poter disporre di un umanometro, uno strumento che risponda alla secca domanda seguente:

Quanta umanità ti appartiene?

Se ci occupassimo di queste misure, scopriremmo infinite sfumature di gentilezza ed ascolto attivo, che costringono a mettersi sempre in discussione, senza mai riuscire a darsi la sufficienza. 

Personalmente, a dirla tutta, sono stati proprio il sentirmi sempre inadeguata ed il riconoscere di aver sbagliato in ogni giornata trascorsa finora sulla terra da che ne sia consapevole, che penso mi abbiano finora consentito di ritornare sui miei passi, per correggere le mie mancate aperture verso l'Altro, verso quella singolarità che è sempre, come diceva Nancy, "un altro accesso al mondo". 

Abitano in me ombre e chiaroscuri come per tutti. Ma, finché sarò lucida e cosciente, voglio dipingere la mia anima come fossi Caravaggio, fare un uso quanto più possibile sublime della luce, per non lasciare questa terra con troppi detriti di rimpianti ed occasioni mancate, ma piccoli frammenti di solare umanità. Qualche radura, come direbbe Heidegger (con il quale di "umano", comunque, non avrebbe avuto senso discutere), per non perdere del tutto la mia umanità.

 La "differenza", insomma, in questa società che ci vuole disumani, mi piacerebbe farla così.

E voi? Quanto vi sentite ancora umani? 


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