SGUARDO E CAPITALE



" E guardo il mondo da un oblò
mi annoio un po'"
Gianni Togni, Luna
René Magritte, Il falso Specchio, 1928

Prima di andare in vacanza anche dal blog, provo a mettere insieme alcune rapide considerazioni sullo sguardo nell'era tardo-capitalista, ripromettendomi di tornarci tra qualche tempo. 

Il passaggio dal grande schermo al piccolo schermo ha segnato un cruciale spostamento verso  l'individualismo estetico ed etico, verso l'irrompere contagioso, cioè, di una nuova" passione" sempre più solitaria, direi monadica, nel coltivare visioni proprie e nell'intrappolare immagini in maniera esclusiva e personale, senza più confrontare quanto si vede con la percezione altrui, in contemporanea.

 Da quanto tempo capita che ormai i film e le serie tv li si guarda da soli e poi, al limite, si segnala quanto ci è piaciuto a chi ci è caro e la cui sensibilità riconosciamo affine alla nostra? 

 Preferendo la comodità e iniziando ad assaporare nuovi piaceri legati allo spazio domestico, abbiamo picconato progressivamente (e forse irreversibilmente) lo spazio e il tempo magici del teatro e del cinema, evaporati per consentire alle televisioni prima, ai tablet, ai pc e agli smartphone poi, di assorbire in un approccio sempre più scarno perché separato e quindi depoliticizzato, quella esperienza collettiva che sollecitava discussioni e cementificava estetica e solidarietà.

Il capitale ha bisogno dei nostri occhi.

Il Panopticon ideato da Jeremy Bentham nel 1791, modello di dispositivo di controllo totale e costante

 Tutto ciò che guardiamo attraverso uno schermo è alla radice degli introiti formidabili delle aziende dell'intrattenimento, dai videogiochi alle piattaforme digitali ai social. 

Con ancora maggiore facilità rispetto a quella con cui cambiamo vestiti, borse e scarpe, alimentando una nociva fast-fashion che distrugge il pianeta, consumiamo alla velocità della luce immagini, video, episodi, serie tv che scegliamo di guardare a qualunque ora del giorno e della notte, interrompendoli quando ci va, senza obblighi di una programmazione da seguire.

Per non parlare dell'estrema rapidità con cui muoviamo gli occhi sugli schermi di pc o telefonini quando partecipiamo più o meno passivamente alla nostra vita virtuale dei social.

Spesso mi torna in mente la frase di un talentuoso regista, Peter Greenway, che diceva "se avete gli occhi, non significa che sappiate vedere".

Sulla gamma etimologica che si apre a proposito della vista si potrebbe discutere a lungo. Ho letto questo bel post che vi consiglio: guardare e non solo vedere.

Ma il primo autore che mi viene in mente parlando di vista è il buon vecchio Aristotele:

Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose.

Aristotele, incipit del I libro della Metafisica


Tutta la metafisica occidentale riposa su questo assunto: la conoscenza ha a che fare principalmente con la vista. I ciechi - e anche le donne- per Aristotele non possono raggiungere una conoscenza effettiva, perché senza le distinzioni operate dagli occhi degli uomini vedenti, il mondo sfracella in un caos insensato.

Beh, che lo sguardo non sia mai puro è un dato imprescindibile, riconosciuto come nucleo fondante dell'intenzionalità, dalla fenomenologia all'inizio del Novecento. Ed il fatto che il vedere/guardare sia sempre situato e intenzionale è il motivo sorgivo della conoscenza, l'atto fondamentale che permette al processo conoscitivo di avviarsi.

Ma nell'era tardo-capitalista, invece, il fatto che lo sguardo non sia puro, perché asservito al profitto, è proprio ciò che incombe come una minaccia, rendendo lo stesso processo conoscitivo di fatto inattuabile, perchè  costantemente sottoposto ad altre leggi che non sono teoretiche.

La teoretica diventa oggi totalmente schiava dell'etica ormai immorale, e quindi della non etica, capitalista, perché se tutto ciò che guardo è finalizzato a un profitto ed io non riesco più a trovare un varco entro cui far splendere delle considerazioni che vorrebbero denunciare quella stessa amara consapevolezza di essere sempre impigliata in una tela tesa al guadagno, anche nel momento in cui critico aspramente questa im-postura, mi espongo sempre e comunque alla logica di mercato su cui riposa il Capitale.

E allora la logica di mercato finisce con l'essere più potente della logica stessa e finiamo con l'essere inglobati anche noi filo-filosofe e filo-filosofi aspiranti alla purezza o alla non purezza, di un gioco difficile di idee, concetti, astrazioni che aspirano con orgoglio alla contemplazione dell'essere.

La fatica del concetto implacabile e impalpabile della teoresi che pretende di accompagnare percorsi arditi su sentieri irti dove l'aporia è di casa, solamente per raggiungere delle radure di verità, ecco che tutto questo sembra oggi diventare impossibile.

E allora come si fa la filosofia ai tempi del capitale, nella sua (ultima?) declinazione che lo vede sempre più cannibale e sorvegliante

Proprio mentre disperatamente cerchiamo di suggerire che c'è dell'essere altrove, veniamo tacciati comunque anche noi di essere pedine di questo gioco, volto soltanto ad ottenere consenso e popolarità. 

 Se la metafisica è legata allo sguardo, perché, come insegna Aristotele, l'aspirazione al sapere è sempre stata connessa alla vista  (anche di qualcosa che non c'è), questo tentare di andare oltre le soglie delle apparenze per guadagnare l'essere, laddove questa apparenza ha ormai totalmente sovrastato l'essere, allora che spazio è effettivamente concesso oggi alla teoretica? 

La filosofia viene accusata da tempo di essere impura, ma se chi guarda al theorein lo fa solo per interesse materiale, per ricavarne un profitto, il pensare collassa, evapora in uno squallido gioco di parole vuote, che non hanno più davvero voglia di avventurarsi nel pensare l'Universale, ma solo di mantenere tanta fumosità intorno a questi argomenti, per far credere di essere studiose e studiosi impegnate/i e meritevoli, perciò, di successo.

La tesi che intendo azzardatamente sostenere è che il capitale abbia reso il nostro sguardo piatto, omologato e incapace di aspirare alla conduzione di un'indagine approfondita della realtà.

Il capitale uniforma lo sguardo, fonte primaria di conoscenza, rendendoci ciechi. Amalgama tutte le nostre visioni livellandole, in modo che nessuna conti più delle altre, perché sono tutte egualmente indifferenti, dal momento che, a prescindere dalla loro capacità effettiva di scrostare veli di Maya e dare un senso più pieno alla realtà, rimangono tiepide quanto inutili sbirciate, che occorrerà semplicemente monetizzare in un gioco che va sempre più al ribasso per l'umanità, arricchendo solamente pochi padroni, dagli occhi senz'altro furbi, ma non troppo limpidi. 

Come continuare a guardare? Come, dunque, la vedo?

Propongo di disinnescare il dispositivo, intanto focalizzando il nostro sguardo critico sul rapporto tra l'occhio che guarda e l'occhio da cui si è guardati. 

Non siamo solo ciò che vediamo e fare spazio all'invisibile, all'intra-visto ed anche, se non soprattutto, all'intro-visto (ciò che scruto solamente dentro di me), potrebbe già allentare la maglia rigida del Capitale. 

Perché le pupille abituate a copiare
Inventino i mondi sui quali guardare
Seguite con me questi occhi sognare
Fuggire dall'orbita e non voler ritornare



E, poi, semplicemente torniamo a guardarci negli occhi, perché, come ha scritto Milan Kundera, "L'occhio è la finestra dell’anima, il fulcro della bellezza del volto, il luogo in cui si concentra l’identità di un individuo”, ed essere assetati dei luccichii unici che rendono ogni sguardo inconfondibile potrebbe salvarci dall'omologazione disperata che si compie, è il caso di dire, sotto i nostri occhi. 

Sarebbe una svista imperdonabile non fare altrimenti!

 

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