LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI: tra generazioni diverse il confronto è possibile?

 
"Non il fatto di essere nati nello stesso tempo cronologico, di essere diventati giovani, adulti e vecchi nello stesso tempo costituisce la collocazione comune nello spazio sociale, bensì la possibilità a esso legata di partecipare agli stessi avvenimenti e contenuti di vita e, soprattutto, di essere esposti alle stesse modalità di stratificazione della coscienza"
Karl Mannheim, 1928, Das Problem der Generationen (Il problema delle generazioni

 


Malgrado il titolo del post, non scriverò una recensione.

Prendo spunto dalla bella serie tratta da un libro di Elena Ferrante (che, a dir la verità, non ho letto, quindi non saprei se consigliarlo, la serie, invece, senz'altro!) 

e precisamente da alcune parole di Giovanna, la protagonista adolescente inquieta e tormentata, che nei sei episodi  scoprirà  le menzogne degli adulti e tenterà di trovare risposte alle sue profonde domande esistenziali.

Ad un certo punto, a conclusione di un acceso dibattito tra due adulti “comunisti” (tra cui il padre di Giovanna) ed un giovane ideologo cattolico, Roberto, il quale termina la conversazione dicendo che i cattolici, a differenza dei laici, hanno “un progetto con un termine lungo e nei Vangeli - se li si legge con abbandono - quel progetto appare chiaro”,  

Giovanna irrompe così:


 Anch’io ho letto i Vangeli, tutti e quattro.

“Che ne pensi?” le domanda Roberto.

Non funzionano.

Gesù è figlio di Dio ma fa miracoli inutili, si fa tradire e si fa mettere su una croce e non solo! Chiede al padre di risparmiargliela la croce, e lui non muove un dito per risparmiargli nessuna sofferenza!

 Perché non poteva scendere lui a soffrire?

 Dio per il vangelo crea un mondo che non funziona e poi attribuisce tutta quanta la responsabilità di questo mal funzionamento al figlio. 

Perché?


Non vi racconto il seguito, ma volevo soffermarmi su questa sensazione cupa, lucida e addolorata di chi si ritrova sotto scacco, "gettato"- direbbe Heidegger- nel mondo e quasi arreso davanti ad un caos di dolore e sofferenze che non ha creato e di cui, pure, si trova a dover rispondere.

Le colpe dei padri (e anche delle madri) ricadono sulle figlie e sui figli fin dall'origini dei tempi e sembra che ogni generazione nascente debba sentirsi abbandonata e tutt'al più operare faticosamente una redenzione da quel male stritolante e inestricabile che si trova, senza esserne in alcun modo responsabile, sopra le spalle.

Questa consapevolezza di dover piangere i danni di chi ci precede è alla radice, probabilmente, del conflitto inevitabile vissuto da ogni generazione.

Cosa sia una generazione è davvero difficile spiegarlo, tanto quanto provare a ragionare sul senso di appartenenza alla propria.

"Appartiene al suo tempo- ha scritto magnificamente Giorgio Agamben-  è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo."

Dunque, anche ammesso che ci sia un’omogeneità dei suoi membri tale da poter parlare di una generazione come un collettivo entro cui ognuna/o si riconosce senza residui, senza gli scarti auspicati da Agamben, rimane il problema della comunicazione tra generazioni e dell’impegno da mantenere per la salvaguardia delle generazioni future.

Gaber, classe 1939, nel 2001 diceva “la mia generazione ha perso”.

Aveva perso lei, o forse aveva perso lui  "quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa/ che in sé travolge ogni egoismo personale/ Con quell'aria più vitale che è davvero contagiosa".



Può darsi che arrivi un momento dell’esistenza in cui ciascuna/o pensi della propria generazione lo stesso.

Chi può capire meglio, del resto, la realtà? 

Anziani o giovani?

Baby boomers, generazione X, generazione Y, generazione Z o generazione Alpha?

E queste diverse generazioni possono davvero confrontarsi tra di loro? 

O sono costrette a sperimentare un'irriducibile estraneità reciproca e confinarsi nel recinto della loro generazione, senza più percepire la questione dell'eredità in comune da gestire, come urgente e decisiva?


I'm not trying to 'cause a big s-s-sensation 

I'm just talkin' 'bout my g-g-g-generation

cantavano della propria i mitici Who.


Prendiamo il caso classico dei boomers e dei nativi digitali.

Ragionando in termini dicotomici, potremmo fare un elenco lunghissimo, ma dirò le prime cose che mi vengono in mente:

  • discorso lunghi / discorsi corti, 
  • discorsi soporiferi / discorsi smart
  • argomentazioni dettagliate con un capo e una coda/ messaggi asciutti e istantanee frammentarie
  • interesse per la complessità/ interesse per la sintesi estrema


E così via. Il risultato è una percezione di incomprensione reciproca.

Come riusciamo a trovare un punto di contatto tra un Discorso vecchio stile, che aspira alla forma del testo classico, ragionato, argomentato e corredato di note bibliografiche,

 ed uno che procede con rapidità sfrenata, ricorrendo a slang di non sempre immediata comprensibilità, alla ricerca disinvolta dell’aforisma brevissimo e accattivante, talvolta commento di un’immagine divertente (meme) o, ancor meglio, video esemplificativo che possa suscitare ilarità e, magari, diventare virale?

Come possono comprendersi i linguaggi di generazioni differenti?

Possono i social essere una casa comune che avvicina le varie età, creando ponti benefici?

I social possono difficilmente essere considerati strumenti "politici", capaci di sostituire la diplomazia ed ignorare la fitta tessitura di trame che riguardano ogni decisione politica.

Non sovvertono gli equilibri economici pensati nelle stanze del potere, anzi, il loro utilizzo non fa che alimentarli e non producono cultura raffinata- né esteticamente, né politicamente parlando- perché il modo di interagire è comunque necessariamente istantaneo come un clic pigiato su un post, o breve come un'opinione lasciata in calce ad una notizia.

Anche le note di fb, cui ho fatto ricorso frequente negli anni, sono in fondo un residuo di una cultura umanistica logocentrica, che ancora confida nelle grandi narrazioni come risorsa indispensabile per resistere al degrado. Perché nei social il ritmo è differente.

Eppure, anche se il dialogo in carne ed ossa non può avvenire naturalmente in nessuno spazio virtuale, ormai penso di avere imparato che si possa comunicare anche lì.

I social hanno plasmato, insomma, il nostro modo di essere globale in maniera non del tutto negativa. Perché, tra i tanti usi cui si prestano, oltre ad essere mezzi pratici per conoscere gli "eventi" in corso (ah, se Heidegger sapesse come viene usato questo termine oggi..) e contattare rapidamente persone lontane, possono anche propagare idee senza fare propaganda.

Le disseminano e aiutano a creare, impercettibilmente, una vaga coscienza comune.

Che sia quest'ultima la chiave di volta positiva della nostra epoca, in grado di vincere sulle naturali e sacrosante differenze dei singoli, in nome di grandi temi come il global warming, la pace nel mondo e i diritti umani in generale?

Ho tanti dubbi al riguardo.

In ogni caso, se le idee sono buone e si contagiano, è sempre un piccolo passo in più verso un miglioramento complessivo della convivenza planetaria, di cui ciascuno di noi è pienamente responsabile.

Non è semplice accettare una riflessione corta, sia pur mirata, entro cui fare sorgere un'idea nuova. E darsi da fare perchè, anzichè abbandonarsi soltanto al cazzeggio collettivo, i frammenti lasciati nell'etere virtuale siano di "risveglio" , capace di diffondersi anche fuori dai social, richiede molta energia e sacrificio.

Ma le coscienze non si manipolano. Si può tentare solamente un contatto con esse.

Anche per me imparare a" stare al discorso fb" non è stato facile, non ne ho fatto mistero.

Ed ancora non l'ho imparato, molto probabilmente.

Tuttavia ormai so che se si crea un'ironica distanza tra il soggetto ed il mezzo usato, tentando di riflettere piuttosto spesso sulla sua funzione, non ci si lascia interamente catturare dal giocattolino e lo si può posare per qualche tempo e riprendere in seguito, senza che si inneschino crisi d'astinenza piuttosto idiote.


La distanza tra generazioni, in ogni caso, naturalmente non è solamente linguistica. 

Non ho strumenti sufficienti per approfondire l'interessante settore sociologico che analizza i mutamenti generazionali e cerca di classificarli, accettando la provvisorietà e labilità dei risultati e delle etichette, ma a caratterizzare fortemente ogni generazione ci sono possibilità lavorative, maniere di concepire i rapporti con gli altri e di impostare la propria esistenza, una certa "Stimmung" (atmosfera) che connota in un modo specifico per orizzonti e aspettative, impegno politico, grado di narcisismo, musica ascoltata, film visti, esperienze comuni, etc. 

Ogni generazione ha la sua specifica "aura". 

Ma, quale che essa sia, bisognerebbe tentare di non trincerarsi nella propria, credendola la più felice o la più infelice di tutte le altre, in ogni caso bastevole a sé stessa, perché lo scambio tra generazioni, per questi strani e curiosi esseri umani dotati di "storicità" che siamo, avviene comunque molto al di là delle intenzioni dei singoli.

Mentre scrivo, ho davanti una foto di me piccola e mio nonno materno, seduti insieme su una poltrona.

Il lieve contatto tra le guance, anzi, io totalmente abbandonata e lui che mi accoglie sereno, senza perdere il sorriso- malgrado il peso di  me bambina grassoccia di otto anni in un vestito di cotone giallo che amavo molto- mi ricorda quella soglia invalicabile tra familiarità ed estraneità che si sperimenta sempre nel confronto con l'alterità, di e a tutte le età.

Gli sguardi si muovono in direzioni diverse, abbiamo percorsi differenti dietro e davanti,  ma ciò che ci sostiene, almeno per un piccolo, fondamentale pezzetto, è comune. E non lo perdo, non ho intenzione di perderlo. 

Ancora, a quarant'anni suonati, se mi fermo a pensare che non c'è più, la gola si chiude in un groppone e gli occhi si bagnano all'istante. 

Questo sacro rapporto con le radici viene in modo più o meno esplicito negato dal presentismo attuale, che idolatra solamente le starlette evanescenti e tributa onori unicamente al regno dell'effimero.

Ma se sentirsi in perenne debito può suscitare ilarità agli occhi di tanti, io non perdo fiducia nella sensibilità di chi verrà domani e sarà intenzionato a cucire ostinatamente i fili di una storia che richiede viva partecipazione da parte di tutti, giovani, giovanissimi, adulti, eterni adolescenti, anziani e vecchi bacucchi. 


 In conclusione, per tentare di rispondere alla domanda del titolo del post,  direi che  il confronto è non solamente possibile, ma necessario, perché il punto fondamentale che dovrebbe riguardare ogni generazione è, oggi più che mai, la salvaguardia della terra.

L'apparentemente insormontabile distanza potrebbe frantumarsi se si riscoprisse un interesse identico, che accomuna tutte le generazioni e credo possa e debba unire veramente tutte/i trasversalmente: 

SALVARE IL PIANETA!




 




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