CRONACHE DALLA FRONTIERA SCOLASTICA/4


 La professione docente conosce continuamente situazioni conflittuali con cui confrontarsi. 

Insegnare è un’attività complessa e problematica in cui è difficile conseguire senza sbavature i risultati auspicati. Lo scarto irriducibile tra le prospettive del docente e quella degli allievi è un fattore con cui spesso non facciamo adeguatamente i conti, coltivando valanghe di frustrazioni che conducono tanti di noi alle soglie del famigerato burn out (soprattutto a maggio, mese funesto per ogni docente di ogni ordine e grado!).

Onestamente, la mia memoria fatica a ritrovare momenti davvero difficili tra quelli vissuti nelle mie poche supplenze sparse negli anni precedenti questo fatidico anno di prova, perché ho sempre cercato di mettere al centro la relazione e fare di tutto per trasmettere la passione per gli argomenti sviluppati nel breve tempo concesso. 

In un'attualità che si nutre di narcisismo, in ogni caso eviterei di mettermi in mostra ed autoincensarmi per mostrare quanto sono stata brava nel risolvere "il caso x", anche perché i nostri unici giudici sono le ragazze ed i ragazzi e chi di noi lavora bene lo riscontra nel loro sguardo quando ci si saluta, nei messaggi lasciati sulla lavagna, nelle confidenze speciali riservate nei cambi d'ora o negli incontri casuali fuori da scuola, in cui emergono attestati di stima e gratitudine che valgono tutto il nostro impegno ed anche molto, molto di più. 

Che cosa potrebbe mai fregarvene della mia personale esperienza da docente?

Potrebbe, invece, risultare forse più interessante raccontare anche a chi è fuori dalla cerchia degli "addetti ai lavori" in cosa si sia trasformato negli ultimi decenni il nostro mestiere.

Il conflitto, avvertito nelle mie supplenze random, tanto quanto quest’anno- il mio primo intero da settembre, che emozione! - è per me, principalmente, quello con il tempo. Ed è su questo che vorrei scrivere poche righe di sfogo e di denuncia.

Come mi ha detto un bravo collega con una frase efficace che torno a citare spesso, "la didattica è ormai diventata un apostrofo rosa tra un’uscita didattica ed un PCTO". 

Riuscire a portare avanti quanto prefissato è diventato una gara ad ostacoli piena di insidie che poco hanno a che vedere con la capacità/incapacità innovativa dal punto di vista didattico e metodologico dei più anziani colleghi o delle giovani leve. 

Potere avere presenti le ragazze ed i ragazzi è sempre più difficile, perché il quantitativo di progetti alternativi a cui si sottopongono in tutto l'anno scolastico è sbalorditivo.

Non è sempre una questione di negligenza, insomma, se ci sentiamo spesso perdute e perduti.

Il tempo è una minaccia continua, ma non solo perché non sappiamo gestirlo adeguatamente noi (variabile naturalmente non eliminabile dalla questione in oggetto), ma perché le ore di insegnamento si perdono per cause diverse, tutte seducenti, tutte carine, tutte preziose, ma tutte foriere dello stesso identico effetto: allontanare dalla classe e dalla didattica le allieve e gli allievi (che certamente non oppongono alcuna resistenza all'idea di avere un'attività extra, si capisce....siamo stati sedicenni anche noi!).

E così, voglio raccontarvi di quando ho dovuto fare una supplenza a maggio lo scorso anno ad una quinta che non aveva ancora fatto la prima guerra mondiale ed era ferma a Hegel. E come, nonostante sapessi bene a cosa rischiavo di andare incontro e malgrado fossi convinta non avrei replicato mai la stessa situazione con le "mie" classi, se con le terze posso ritenermi abbastanza soddisfatta del percorso effettuato, con le mie quarte- quest'anno non ho quinte-  non sono ancora arrivata dove avrei desiderato. E sicuramente sottoporli ad uno sprint finale è del tutto inutile ormai.

Il sovraccarico cognitivo è qualcosa da cui occorrerebbe sempre guardarsi molto bene. Ma non è così inconsueto, invece, che succeda di fare grandi corse in cui a correre forsennatamente di fatto sia solo l’insegnante, mentre gli alunni arrancano dietro o forse nemmeno partono, frastornati dalla quantità eccessiva di informazioni brutalmente trasmesse.

Noi docenti sappiamo benissimo che non si debba accelerare, si debbano rispettare i ritmi di apprendimento di ciascuna e ciascuno per consentire che tutti raggiungano la padronanza della disciplina. E sappiamo di non doverci ritenere ostaggi di programmi ministeriali scomparsi dagli anni Novanta, salvo poi dovere preparare ragazzi a prove di esami di Maturità che con i programmi certamente fanno i conti. 

Insomma è il calendario, l’orologio, il tempo che sfugge il nostro peggior nemico, che personalmente cerco di affrontare senza sacrificare ciò  che ritengo irrinunciabile ed imprescindibile, ripromettendomi ogni volta di diventare più agile nell’affrontare le giornate concesse, riducendo, facendo tagli, rimproverandomi di non avere fatto abbastanza (io che di assenza non he ho fatta nemmeno una, mai, e non c’è volta che non spieghi, affidandomi alla loro generosità, perché “l’attenzione è la forma più pura di generosità”, diceva Simone Weil, ed i miei ragazzi e le mie ragazze, malgrado la lotta continua contro l’inebetimento del cellulare, quando iniziamo a discutere di storia o di filosofia sono generosi!).  

Già, finisce che come sempre mi metto sotto accusa io, anziché  capire che il conflitto potrei avere speranza di risolverlo solo se quel tempo che cerco faticosamente di guadagnare mi venisse garantito da un’idea di scuola pubblica che ha a cuore davvero la formazione e non attenta continuamente alla nostra professione sottraendoci - per miliardi di motivi la cui legittimità non vale forse neppure la pena di discutere- ore che non torneranno più.

Se un'ora di lezione può cambiare la vita, come diceva Recalcati, beh, concedetecela quell'ora, intera, per consentirci di coltivare e goderci quella relazione educativa che è il profondo motivo per cui andiamo ancora con piacere a scuola, malgrado l'IA e tante altre inquietanti pressioni che potrebbero farci abbandonare il mestiere e cercare un ripiego meno logorante e generatore di ansie.

Finito lo sfogo/denuncia, posso assicurarvi che sto imparando ad accettare questi limiti ormai connaturati alla scuola, perché non credo sia un processo reversibile.

 La razionalità impone un grado di adattamento che mi terrà al riparo dall'esaurimento nervoso, scovando nella benedetta leggerezza l'ancora per non naufragare nell'avversione petulante ad un Sistema molto poco perfetto, ma non privo di varchi di autenticità che, anche quest'anno, ho potuto per mia immensa fortuna sperimentare.

Ad maiora!

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