Pesantezze antiche

Dove abbia trovato in passato tanta energia polemica e farneticante per discutere della situazione palermitana, per me rimane un mistero.

Oggi che di quella forza non c'è più niente, mi crogiolo nella mia anemia galoppante e, senza tentare alcuno sforzo creativo, copio e incollo ben due note pubblicate su facebook. 

Riflessi al Cassaro


La prima risale addirittura a 14 anni fa e già nel titolo è tutta un programma:


 Silvia versione Simone Weil in Gadamer...applicazioni ermeneutiche alla politica cittadina

Ecco a voi un monologo, in cui implicitamente spiego intanto perché il Gadamer che parla attraverso di me aspiri a bellezza, verità e giustizia che rappresentano un'unità cui nella mia ricerca personale anch'io ho aspirato (e, malgrado continui tradimenti, forse vi continuo ad aspirare).

 E poi come mai, in un modo o nell'altro, questa trinità femminile sia destinata (gadamerianamente, silviescamente e forse anche per Simone Weil -che però fa i conti con un'origine della comunità che Gadamer invece non approfondisce se non situandola in una domanda originaria con cui ritiene abbia inizio l'origine stessa, si potrebbe dire-) a tradursi in politica, anche senza che si misuri necessariamente con il potere istituzionale, se non nella critica e nell'esortazione al risveglio.

 

"Palermo, situazione emergenziale...rifiuti e casa...non voglio l’inceneritore e non voglio che ci siano situazioni di degrado e deserto spirituale tra poveri cristi. Non voglio che ci sia chiusura, non voglio che ci sia paura. Vorrei che si sperimentasse un punto di rottura dove maturi il coraggio e che le parole potessero risollevare gli affranti, consolare chi ne ha davvero bisogno... Chimere? Forse, ma tutto sommato è sempre stato intorno alla "parola" che ho vissuto. Non ho saputo usare con chi avrei dovuto e voluto le giuste parole...e questa potrebbe essere l’occasione di riscatto.

Si insiste tanto sulla "comunità". Ciò che abbiamo in comune non è l’essere palermitani...quello si respira e coniuga in modo personale. È il vivere in una città contraddittoria che è nota per la sua negligenza, per il suo essere votata al rigetto anziché al progetto. 

È la concezione del tempo stessa che a Palermo andrebbe modificata. Forse è come chiedere ad un salice piangente di diventare una quercia, ma anche la visione del tempo si modifica. Finora per la storia particolare che riguarda questa terra, se una generalizzazione è possibile effettuarla, il tempo palermitano sembrerebbe prestar un ottimo scenario per la filosofia o una buona cinematografia tedesca (un nome per tutti, Wenders), non perché frutto di un pensiero filosofico che s'interroga sulla morte, ma perché conseguenza inevitabile della passività, della noia, della ritrosia ad accettare il cambiamento, rimanendo a sognarlo come qualcosa di avventato, fondamentalmente inutile, che non può accadere perché la colpa è sempre di qualcun altro.

Qualcuno rema contro questo senso di morte e grida: "Non si può vivere in questo modo! Ricominciamo dall’assunzione delle responsabilità! Ognuno ha le proprie. Cambiare è possibile!". Se 150 anni fa Don Fabrizio avrebbe tentato di dissuadere uno straniero come Chevalley, oggi tutti i Gattopardi dovranno vedere di convincere i loro stessi concittadini, perché i vari Chevalley non vengono più da fuori e non se ne andranno senza avere capito pienamente il discorso drammatico del Principe di Salina. Sono palermitani che hanno viaggiato, hanno letto, studiato, osservato ed amato tante cose diversamente e non si sentono di trascinare le colpe dei padri, conosciute da molto vicino. Vogliono rivoluzionare davvero, senza lasciarsi inibire dal triste pensiero che questa città sia irrecuperabile.

Essere “cittadini” incontra molti ostacoli a qualsiasi livello, sia esso cittadino, nazionale, europeo.

Ovunque c’è società e non comunità, i rapporti instaurati sono necessariamente freddi, legati solo da questioni di profitto. In una città che ha miliardi di problemi legati alla questione lavoro, le persone sono molto più deboli ed è più facile improvvisare una generosa solidarietà. 

Ma è difficile impegnarsi a costruire sulla base di quella un progetto nuovo, in cui le lamentele vengono espresse non per svuotarsi e trovare comprensione soltanto, ma, come in una terapia di gruppo, perché si inizi effettivamente a cambiare rotta. Non si piange sulla propria storia! Abbiamo il dovere di conoscerla e di modificarla in quello che non ci piace, uniti dal coraggio di dire no a nuove violenze ed attentati alla nostra dignità di cittadini palermitani che hanno tanti doveri quanto diritti. Le proteste nascono per sottolineare quest’assenza di corrispondenza.


 A Milano non ci potrebbe mai essere tanto malumore, perché i servizi ci sono... Non siamo dei visionari, ma dei frustrati. Il dolore è reale e si ripercuote su tutti, anche su coloro che si credono immuni, fuori dal pericolo...il “delinquente” sceglie la via criminale perché si sente senza alternative. La buona politica dovrebbe impegnarsi ad offrirgliele. Qui, più che reprimerlo, lo asseconda e copre per fini elettorali, perché gli occorre il suo voto. Lo sistemerà a tempo debito in qualche municipalizzata e non sarà più un semplice delinquente, ma un delinquente schiavo.

 

È necessario recidere a fondo questa logica su cui da secoli si basa la nostra convivenza “civile”. Bisogna accettare che non ci sono affatto distinzioni nette tra la “comunità” che si riconosce nella legge ed in determinati valori condivisi e quella mafiosa, che ignora la legge e si fa promotrice di comportamenti aggressivi, fondati sull’”onore”, sull'illecito e sul ricatto solo per arricchirsi.

 Nel momento in cui il capitalismo rende la “comunità” una società che è incentrata sul guadagno e sul consumo, il sistema mafioso è molto più difficile da individuare. Se, malgrado la crisi, tutti sono pronti a vendersi anche la propria madre per gonfiare il portafoglio, se l’”avere” ed il “successo” sono al centro di ciò che si crede sia l’identità, l’unica resistenza da attuare riguarderà l’essere e l’accettazione del fallimento. Occorre interrogarsi a lungo sul nesso tra "identità" e "potere". E per farlo, penso non si possa cominciare che da un'operazione complessa, da attuare in prima persona, confidando nell'effetto propulsivo che possa derivarne. Ricette puntuali non ne esistono, ma l'obiettivo è rinnegare fino in fondo il principio capitalista-berlusconiano che ha incoraggiato il declino impressionante della società italiana, solo perché non incontrava ostacoli forti a questo andazzo, dal momento che la nostra non è stata mai una Repubblica abitata intensamente dalla “cultura”, ma un Paese che ha sempre dovuto tentare di colmare disastri e fare i conti con profonde disparità tra un Nord avanzato industrialmente ed un Sud molto povero, recando infinite contraddizioni ed alimentando tensioni continue tra i suoi cittadini..

Non c'è da rattristarsi troppo, quanto da prenderne semplicemente atto.

Consapevoli di ciò che è stato e del perché siamo oggi qui, contrastare l’assetto attuale che premia il consumo e guarda di buon grado alla volgarità, più che trasformarsi in moralismo dovrebbe coincidere con un’insistenza nell’eccesso opposto, tale per cui trabocchi il principio da cui far ripartire nuovi modelli antitetici al berlusconismo. 

Solidarietà, rispetto per il dolore, decrescita felice guidata da un ritorno del “sacro” dopo tempi di indiscriminata profanazione di tutto…un’Italia che si sforza di farsi “giusta” ed unita e solo così può partecipare attivamente alla lunga, paziente costruzione di un’identità europea.

 

Si sta preparando potenzialmente proprio questo. La storia dirà chi vincerà. Posso prevedere che anni sempre più bui lasceranno a questi movimenti dal basso, coordinati con la saggezza e cultura degli onesti, dei tanti intellettuali impegnati, fuori e dentro le università e di quel poco che resterà della scuola pubblica, il compito di resistere e rappresentare, tra diversi anni, il nuovo modo italiano di fare politica in un’Europa che avrà sempre meno voglia di fidarsi di un popolo gaudente o scioccamente incapace di arginare un simile mostro, che la sta rendendo il Paese più squallido, cinico, miope e deprimente che esista in Occidente.

 

Che l’opposizione si vergogni di non aver lottato come avrebbe dovuto, quando dirimere il conflitto d’interessi sarebbe stato la prima, urgente ed inderogabile attività che l’avrebbe dovuta impegnare. Non averlo fatto, non poteva che fare perdere fiducia nel potere del contraddittorio e persino far rimpiangere quelle frange estremiste che, spazzate via da un’insana, orribile riforma elettorale (che ancora grida vendetta) , sebbene sempre lesive della compattezza della Sinistra, avevano ancora la forza- o così mi piace pensare- di indirizzare verso gli oppressi i loro sforzi politici e ricordare che della ricchezza sia indispensabile occuparsi solo per distribuirla equamente.

 

Un popolo con una nuova metafisica, quella berlusconiana, è un popolo di pecore pronte a rincorrere le mode del momento senza porsi mai alcuna domanda importante o indugiare in dilemmi interiori, storici che sottraggono tempo all’imperativo del guadagno.

 

Una mutazione antropologica molto pesante da contrastare.

 

Ma ce ne libereremo se grideremo più forte quanto contino la bellezza, il coraggio, la giustizia, la verità, universali concreti che plasmavano la democrazia della Grecia del V secolo a.C. 

Apparentemente distrutta, questa mantiene, per fortuna, nelle memorie di molti la sua grandezza, sebbene quella contemporanea si sia mostrata infedele e corrotta. Perché solo il" ritorno" ( ideale, come tensione continua) a quel tipo di democrazia (se si ritiene che la democrazia non sia da buttare via, ma un prodotto storico costato la vita a tanti, che va difeso e migliorato con passione quotidianamente, mediante la partecipazione di tutti) può contrastare lo strapotere della Chiesa e della mafia e ricordare come la vera libertà si coltivi nel pensiero e che ogni uomo che pensa, ossia ogni “filosofo”, è guidato da Amore, tensione continua, ricerca imperitura di risposte precarie per domande che non cessano mai di riformularsi e che nessuna fredda cifra potrà uccidere, né sul nascere, né nel loro imprevedibile processo di sviluppo.

 

Piazza Pretoria

Dovreste iniziare ad avere paura, berlusconiani cari, amanti di privatizzazioni e sconcezze inenarrabili, in odor di mafia. Pagherete caro, pagherete tutto (Povera illusa, ndR). Anche chi di voi ha qualche virtù. Perché non è ammissibile che non comprendiate che cosa stia accadendo per colpa vostra, del vostro fottuto consenso. E rende sgomenti che non abbiate repulsione profonda per voi stessi, per quel momento in cui avete, con una croce a matita, decretato che il processo di imbarbarimento avesse inizio.

Facciamo che vada bene la prima volta, resta già molto discutibile la seconda..ma diventa davvero scandalosa la terza. Vedremo cosa farete adesso (alludo alle elezioni regionali del marzo 2010, ndr).

 

E dovreste avere molta paura anche voi politici di sinistra, perché quelli che, senza bandiere e grandi proclami, dimostreranno cosa sia la Sinistra (come mi ostino a chiamare ancora la Politica vera, giusto per trovare un nome che ha una storia di un certo tipo, ma potrei forse chiamarla semplicemente "Cura") faranno impallidire il vostro elettorato, che scoprirà come in Italia il tanto vituperato qualunquismo non sia che l’esito pressoché inevitabile di un gioco sporchissimo che avevate il potere, ripeto, di interrompere. La rabbia è infinita. La criticità inarrestabile. Io non mi arrendo. Non ho paura. E non sono sola. Ho cercato di difendervi e continuerò a ricordare l'importanza delle istituzioni, ma siete quasi integralmente feccia e non vi permetterò di condizionare le mie scelte di vita in modo radicale, trasferendomi altrove per intolleranza radicale nei confronti della situazione italiana. Esorterò a rendervi la vita impossibile ancora per qualche tempo, prima di ritirarmi nel mio mondo familiare di carta e pensieri, condivisibile vagamente solo con pochi "filosofi". Continuerò, sebbene schizofrenicamente, a farlo, perché questo paese è, in scala maggiore, la proiezione di questa mia città, ossia una contraddizione continua che, salvo i casi in cui da tale caos possa nascere la stella danzante che lotta disperatamente per una rivoluzione interiore ed esteriore, resta sostanzialmente priva di Cura per tutto ciò che potrebbe disincantare la sua triste sorte di abbandono e crisi, ridisegnando da cima a fondo una nuova nazione, di sognatori e non più di frustrati.

(....) Sono tempi durissimi. Trovare la propria strada è ardito. Ci sono soltanto, forse, sentieri interrotti da percorrere fino in fondo, amando il rischio ed accettando di essere dei Don Chisciotte che tanto spesso lottano contro mulini al vento che, trattandosi di scirocco, rendono la lotta ancora più faticosa.

I Quattro Canti



Per fortuna esistono molteplici modi per resistere e continuare a far crescere l'Essere, senza alcun'ansia di rincorrere visibilità, dovere piacere a tutti i costi, raccattando consensi trattando le persone come numeri, ma solo per mantenersi fedeli a quello che si crede essenziale nella vita, imparando a guardare in cerca della giusta direzione, una semplicità bistrattata, che aborrisce ogni forma d'ingiustizia e menzogna, capaci di uccidere la bellezza. Una politica della bellezza, perché fondata sull'apertura e la sospensione di giudizio sul senso di ogni possibile autorità che non sia il riconoscere in sé stessi di essere principi di vita e resistenti agli abusi che Entità credute invisibili si credono legittimati a perpetrare, finché si assiste silenti alla loro tracotanza cui segue sempre un ripugnante condono.

Il Paradiso dovremmo tentare di costruirlo qui. La potenza andrebbe riempita dalla grazia che si esperisce nell'incontro con il bello e nella creazione, sempre lacerante e lacerata, che ad ogni uomo è concesso di maturare e lasciare come precaria traccia, che dice nello stesso momento tanto della sua assenza quanto della sua presenza, per chi avrà cura di contemplarla. Il compito più duro di chi voglia rendersi responsabile e partecipe delle dinamiche socio-politiche attuali è indirizzarsi ad una "salvezza" che sia da cercare insieme, non lasciando che sia solamente di pochi, riuscendo a prevenire allo stesso tempo il pericolo mostruoso che si annida nella volontà di potenza, ossia nel farsi fautori di un'accecata visione giustizialista che può avere solamente chi si crede Dio.

Ecco perché la politica dovrebbe riconoscere al suo interno una componente ermeneutica, essenziale perché la sua processualità non sia votata al fallimento...ecco a cosa assomiglia la misura che ho cercato in questi ultimi mesi e che diventa più importante che mai nel farsi attivista in campo "ecologista". Ed ecco tutto sommato perché, anche se ho perduto un'infinità di tempo da dedicare alla ricerca, ho goduto di un faticoso "presente vivente", mi sono sforzata, per lo meno, di farlo vivere. E posso tirare le somme e dire che, conclusa questa battaglia contro l'inceneritore, posso dirmi abbondantemente soddisfatta della mia follia che, come ogni follia che si rispetta, sarà pagata senza nessuno sconto...al massimo raccontata, nel linguaggio che destruttura l'irrequietezza in una prosa che si rende pharmakòn nel suo costituirsi, a prescindere dalle intenzioni riposte in essa dall'autrice.

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La seconda pesantezza (fortunatamente con un numero inferiore di puntini di sospensione, oltre che di caratteri!) facebook me la segnala oggi tra i ricordi di esattamente dieci anni fa, 24 giugno 2014, quando scrivevo:


Spesso i palermitani scongiurano la consapevolezza dei drammi che riguardano la loro città, semplicemente stringendo i denti, probabilmente perché confortati da un improvviso scorcio di bellezza che, se fosse dirompente e sovrana, spezzerebbe quel misterioso equilibrio in cui degrado, criminalità e raro splendore riescono a convivere.

Munnizza illuminata, Borgo Vecchio, settembre 2012


Può darsi che il fascino della penombra, del luccichio velato e contiguo alla miseria, sia la causa della resistenza alla modernità che caratterizza lo spirito siciliano in modo inconfondibile. Alludo a quella specie d'inquietudine sicula di chi non crede ciecamente nel progresso e che nasce anche dall' impossibilità di guardare con troppa negatività le nostre rovine e disfarcene per sempre. Demolire e ricominciare daccapo non appartiene alla nostra cultura isolana, forse perché sappiamo bene che per raggiungere il tesoro si deve scavare nella storia e nella lordia. E per farlo ci vuole pazienza, anzi, è tassativo non avere fretta, e non solo perchè fa troppo caldo e "annacarci" ci piace assai. Ma perché la lentezza è antiproduttiva e, perciò, anticapitalista e, quindi, è la sola roccaforte rimasta oggi per attuare la rivoluzione.
Il parassitismo come ultimo tentativo di rivolta alla pantagruelica spinta occidentale a ingurgitare senza posa tutto ciò che capita sotto tiro.
Finché non si abita il tempo in modo migliore, le questioni dell' abitare fisico possono risultare persino secondarie. La casa é un diritto irrinunciabile e vivere nella munnizza non è mai auspicabile, ma abitare in un bel posto non assicura ovviamente la felicità. Banale dirlo, ma c'è una casa interiore che può sorgere, venir curata assiduamente e risultare grandiosa anche in mezzo all'orrore.
Persino nel campo di concentramento di Theresienstadt si continuava a suonare, malgrado la morte fosse certa e imminente. Perchè ?
Forse il "principio speranza"nasce solo a contatto con la precarietà più radicale e vive mediante essa, come se fossimo degli equilibristi sull' abisso, avvolti dall' aura di quella miracolosa grazia che ci consente di fare un passo delicato dopo l'altro, senza darci mai alcuna possibilità di cullarci nella pienezza, propria solo degli dèi.
O forse no.


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E con questo vi ho appesantito abbastanza.
Ad maiora!

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