Un anno di blog!




Esattamente un anno fa, scrivevo il primo dei novantacinque post- con questo novantasei (!)-  con cui vi ho deliziato finora.

Ho troppe scadenze scolastiche (le solite missions impossible delle supplenze di maggio) che mi impediscono di scrivere nuove menate, ma la data va festeggiata, perciò riciclo almeno un vecchio pensiero. Anzi direi vecchissimo, visto che risale a novembre 2008, ai miei 26 anni, quindi pochi mesi dopo la laurea e con il progetto di dottorato per la testa, insieme a tanti, troppi grilli.

Potrei sintetizzare i seguenti sproloqui come:

 la crisi del ruolo dell'intellettuale.

A mio parere, la delegittimazione sociale da una parte ed un auto scoraggiamento insensato - sia pur comprensibile- dall'altra parte, hanno progressivamente disfatto ogni velleità, condannando chi pensa molto spesso ad una mediocrità nauseante.

Troppo ingiusta? 

Può darsi. Sicuramente delirante nel pensarmi vagamente appartenente alla stretta cerchia, per giunta ancor prima di vincere la borsa di dottorato, come avrei fatto qualche mese dopo! 

(In ogni caso, sono rimasta emotivamente in qualche misura lontana dal mondo accademico, per il quale ho sempre nutrito un' ammirazione sconfinante nella soggezione, non ritenendomi mai sufficientemente adeguata al confronto. Peccato! E chiudo parentesi perché devo correre, ma non voglio lasciare ombra di rimpianti: ormai so che adoro la scuola e gli adolescenti più della ricerca - che pure ho amato tantissimo-!

Mi basterebbe essere una docente non indecente, ambizioni d'altro tipo non mi riguardano più, anzi, non mi sono mai riguardate come sa chi mi conosce. Chiudo.).

Tornerò magari ad atturrarvi sull'argomento in seguito, intanto vi incollo questo:



Mi sto rassegnando alla mediocrità????

Ascolto abbastanza? No.

Il pensatore, esattamente, cosa fa? Pensare non equivale a fare bene. Chi pensa sulla scia della tradizione si sentirà capace di fare riflessioni illuminanti che siano capaci di dirozzare le anime altrui. 

Chi manovra il pensiero avverte il potere grandioso di cui può partecipare astraendosi dalla concretezza volgare in cui si affaccendano gli altri. È questo sguardo di onnipotenza, questa inconfessabile sensazione di grandezza e superiorità che il filosofo deve distruggere.

Se io penso cambio il mondo? Affino idee. Le rendo chiare. Le porto ad espressione con fatica…ma cosa cambio? Cambio me. Mi sento soddisfatta ed autorizzata per questo ad annunciare la mia scoperta, credendola magnifica.

Focalizzarsi sulla potenzialità del pensiero di trasformare le cose non è una resa, non è una risata sprezzante in faccia alla metafisica. Allora avevano il diritto di pensare, perché non “sapevano” con questa rapidità che rende un uomo di strada più informato di un filosofo impegnato a tradurre Leibniz, ciò che succede nel mondo.

 La sfida è riuscire forse ad avere l’occhio del mondo? 

Potersi intendere su tutto? 

Poter dire la propria su ogni argomento, politico, sociologico, letterario che vada dal Congo, alla Corea? Questo vuol dire essere un filosofo dell’era globale?

No di certo. Torna la necessità di affannarsi alla ricerca dell’umano, con un quintale di consapevolezza in più rispetto ai Greci, e una ricerca dell’umano nel rapporto con l’infinito, rappresentato dalla infinità del mondo. È il rapporto tra me e te, la soggettività, l’intersoggettività…lo stiamo vedendo, quanto è nobile finalmente che i teoreti si pronuncino a favore dell’etica, non distinguendosi più dagli studiosi di “filosofia morale”.

La teoretica è morta? Cosa è la teoretica? 

Spiegare Kant, Hegel ed Aristotele anche alle pietre. 

Non perdere la tradizione occidentale e agire con la razionalità per poter portare avanti una convivenza lontana da violenza in un mondo che è sul punto di esplodere per diverse ragioni. 

Si. Ma non è ancora tutto. 

La filosofia deve impegnarsi a salvare i più deboli.

L’affascinante terreno della “comprensione” indagato da Gadamer risulta asfittico se la comprensione che ha in mente è comunque una comprensione tra persone che già hanno compiuto la scelta per la razionalità.

Il sangue, la menzogna sempre possibile, la sete di ricchezza…tutto ciò che è umano, perché è comunque l’uomo che le incarna queste certezze, sdegnano la maggior parte dei filosofi, che pensano di essere già dietro la sbarra, la rigida demarcazione che li separa da tutti coloro che, ignobilmente, si appellano ai sensi, dimenticando la ragione e la pietà.

Ma finché non tenterà di conoscere a fondo le loro “ragioni”, non imparerà a prendersi meno sul serio proprio per essere molto più serio, misurandosi con il totalmente altro, il filosofo come potrà contemplare l’universale?

Sentirsi solo una piccola parte. Ma una piccola parte grandiosa, che può davvero incidere sul reale. Questo dovrebbe essere il monito che guida chi pensa il pensiero oggi.

Funziona? Come funziona un pensiero? Quando sorge? Dove sorge, come lo vedo, se, non solo lo pronuncio, ma non mi rassegno finché non ne vedrò una sua plausibile concretizzazione?

I pensieri…i pensieri... matassa aggrovigliata, che rimane insapore se non diventa agente.

Questa è una delle poche certezze che ho e non voglio distruggere.

Ci hanno insegnato che la fuga è importante, fa parte dell’uomo. 

Ci ho creduto in questi mesi. Mi sono aggrappata a questa dolce camomilla, che mi ha lasciato dormire in tranquillità mesi post-lauream, dimenticando l’urgenza da cui era sorta la fenomenologia del rifiuto.

Solo che forse ha ragione Pessoa:

"Il mondo è di chi non sente. La condizione essenziale per essere un uomo pratico è la mancanza di sensibilità. La qualità principale nella pratica della vita è quella qualità che conduce all’azione, cioè la volontà.

 Or dunque ci sono due cose che disturbano l’azione: la sensibilità e il pensiero analitico, il qual ultimo non è altro, in fin dei conti, che il pensiero dotato di sensibilità.

 Ogni azione è, per sua natura, la proiezione della personalità sul mondo esterno. E siccome il mondo esterno è in grande parte composto da esseri umani, finisce che la proiezione della personalità consiste essenzialmente nel mettersi di traverso sulla strada altrui, nell’ostacolare, nel ferire e nello schiacciare gli altri, a seconda del nostro modo di agire.

Per agire, dunque, è necessario che non immaginiamo con facilità la personalità degli altri, i loro dolori e le loro allegrie. Chi ha della simpatia non agisce. L’uomo di azione considera il mondo esterno come se fosse composto esclusivamente di materia inerte; inerte in se stessa, come un sasso che calpesta o che allontana dalla strada, o inerte come un essere umano che, non avendo potuto offrirgli resistenza, tanto fa che sia uomo o sasso – perché come il sasso è stato preso a calci o calpestato.

L’esempio più perfetto dell’uomo pratico è costituito dallo stratega, perché costui unisce l’estrema concentrazione dell’azione alla sua estrema importanza. 

Tutta la vita è guerra, e la battaglia è dunque la sintesi della vita. 

Ora lo stratega è un uomo che gioca con la vita come il giocatore di scacchi con i pezzi. Che ne sarebbe dello stratega se pensasse che ogni mossa della partita getta la notte in mille focolari e disperazione in tremila cuori? Che ne sarebbe del mondo se fossimo umani? Se l’uomo avesse veri sentimenti non ci sarebbe civiltà. L’arte serve come fuga per la sensibilità che l’azione ha dovuto dimenticare. L’arte è la Cenerentola che è rimasta a casa perché doveva essere così.

Ogni uomo di azione è essenzialmente animoso e ottimista, perché chi non ha sentimenti è felice. Un uomo di azione è riconoscibile dal fatto che non è mai di cattivo umore. Chi riesce a lavorare anche quando è di cattivo umore, è un sussidiario dell’azione; nella vita, nella grande generalità della vita, può essere un contabile, come io lo sono nella particolarità della vita. Ma non può governare le cose o gli uomini. Il governo presuppone l’insensibilità. Governa colui che è allegro, perché per essere triste bisogna sentire.

Il principale, il signor Vasques, oggi ha concluso un affare rovinando un individuo malato e la sua famiglia. Mentre portava a termine l’operazione si è completamente dimenticato di quell’individuo, se non in quanto controparte commerciale. Concluso l’affare, gli è venuta la sensibilità. Solo dopo, naturalmente, perché se gli fosse venuta prima l’affare non si sarebbe mai concluso. “mi dispiace per quel tipo”, mi ha detto, “si troverà in miseria”. 

Poi, accendendo il sigaro, ha aggiunto: “in ogni modo, se avrà bisogno di qualcosa da me” (intendeva un’elemosina) “io non dimenticherò che gli devo un buon affare e qualche migliaio di escudos.”

Il signor Vasques non è un bandito: è un uomo di azione. Colui che ha perso la sfida in questo gioco può di fatto contare sulla sua elemosina per il futuro, poiché il signor Vasques è un uomo generoso.

Come il signor Vasques sono tutti gli uomini d’azione: capitani d’industria e uomini di commercio, politici, militari, idealisti religiosi e sociali, grandi poeti e grandi artisti, belle donne, bambini viziati. Chi è insensibile, comanda. Vince colui che pensa solo a ciò che gli serve per vincere. Il resto, che è l’indistinta umanità amorfa, sensibile, immaginativa e fragile, non è altro che il panno di fondo sul quale risaltano i protagonisti della scena finché il dramma delle marionette non finisce: il piatto fonale a quadri dove stanno i pezzi degli scacchi finché non li ripone il Grande Giocatore, che illudendosi di avere un avversario si balocca e gioca sempre con se stesso.” 


Altro che filosofi al potere, dunque!
Alla prossima!

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