ALICE NEL PAESE DELLE ILLUSIONI




Per spezzare il ritmo analitico del blog, propongo un mio progetto incompiuto, datato 2008. 

In una delle pause dalla stesura della tesi di laurea, una sera scrissi di getto questa stupidaggine, che, forse, solo se completata potrebbe aver senso.

 Così è solo un pesante raccontino,  assimilabile a quel genere che anni fa tendevo a far mio ed ora non mi alletta- fortunatamente- più, intendo l'intimistico-psicologico.

Della sua continuazione esistono solo stralci che forse un giorno mi deciderò a rielaborare, ma non ho ambizioni letterarie, state tranquille/i. 

La grafomania ha ucciso la sua estetizzazione, ne ho piena consapevolezza e mi sta bene così.

La protagonista si chiama Alice, come un personaggio letterario e “cinematografico” amato da molte bambine, me compresa. 

A differenza di quella di Carroll che peccava di eccessiva curiosità, questa Alice postmoderna è  disincantata e fredda, tanto che nel progetto letterario che avevo in mente avrebbe dovuto cercare di reinnamorarsi dei sensi e dell’esistenza, sfidando la plasticità del suo tempo e i suoi fantasmi.

Ho introdotto troppo,  buona lettura!

Alice nel paese delle illusioni

Capitolo 1. 

   NELLA TANA CON IL BIANCONIGLIO.

 

Stanca di confrontarsi ogni momento della sua vita con una sfilza interminabile di opinioni contraddittorie, Alice scelse di affogare il mondo che aveva intorno in un orrendo ricordo di stenti e ingarbugliamenti etici che cominciavano già a farle più pena che nausea. E che pure, in ogni caso, aveva deciso non si introducessero ancora nella sua esistenza.

Tornata dal supermercato, una sera di maggio dispose le verdure biologiche sul ripiano basso del frigo, tolse il cellophane dalla confezione del pollo che avrebbe mangiato a cena, posò il pane di segale, la salsa e le marmellate di fragole e arance amare in dispensa e si sedette con un sorriso indecifrabile sulla sedia di vimini in cucina.

Attese qualche minuto. Poi si alzò, accese la fiamma del gas e lentamente vi avvicinò l’orecchio destro.

Una settimana dopo fu dimessa dall’ospedale, dove i medici vollero credere si fosse trattato di un incidente, risparmiandole l’assistenza di un noioso psicoterapeuta che non avrebbe fatto che colmare di nuove stronzate quell’etere che Alice sognava purificato da ogni immondezzaio, sgradevolmente gettato da tutte le bocche che si aggiravano, virtuali o reali, intorno a lei.

Sorda a metà, purtroppo. Ma era già piacevole poter sentire più distanti quelle chiacchiere intorno alla migliore bistecchiera del momento, le prolusioni sul prodotto miracoloso che regalava tonicità in pochi istanti anche alle pelli più vecchie e trascurate e soprattutto quella pletora sgraziata di ricette di cucina e diete mirate, argomento prediletto di conversazione di tutte le colleghe dell’agenzia di viaggio in cui lavorava.

Bastava voltarsi da un lato per non avere più percezione di nessun frammento dei loro vacui pensieri.

E se il timpano “sano” veniva turato da un auricolare con la sua musica prediletta il gioco era fatto. Nessuno l’avrebbe accusata di essere una maleducata e il suo desiderio di isolamento acustico si sarebbe potuto esaudire nella piena accondiscendenza degli astanti.

Un’estate di riposo e riconciliazione con l’umanità. 

Molti si congratulavano per il suo aver saputo reagire alla disgrazia in un modo così positivo e ai sorrisi di approvazione lei rispondeva sfoderando i suoi denti bianchissimi, benché non distinguesse i singoli enunciati. Stavano per arrivare le ferie d’agosto e avrebbe potuto finalmente dedicarsi al suo romanzo a tempo pieno. Insomma, era infinitamente soddisfatta del suo operato.

Finché una mattina di fine luglio si presentò in agenzia Sergio.

Alice ascoltava le Quattro stagioni di Vivaldi, portando a termine la prenotazione di una famiglia di cattolici per Santiago de Campostela, quando si accorse di un mazzo di fiori sulla sua scrivania. Alzò gli occhi. E notò quella faccia familiare comporsi e decomporsi in numerose pose che intuiva avrebbero voluto sfibrare quella delicata cortina di incomunicabilità, creata con tanta accortezza per immunizzarsi dalla contaminazione altrui.

Sorpresa e per niente imbarazzata, si tolse l’auricolare.

“Ma a che volume tiene la musica, signorina? Sono qui da mezz’ora!” 

Disse lui, sprofondando nella sedia.

“Mi scusi. Vivaldi richiede concentrazione” rispose, spostando il mazzo di fiori frettolosamente e porgendo la mano al misterioso visitatore che, stringendogliela, sussurrò: 

“Ma davvero non mi riconosci, Alice?”.

Lo guardò interrogativamente. Furono secondi di intenso scrutare, in assenza di parole da parte di quell’uomo abbronzato, dagli occhi neri molto grandi e pochi capelli rasati su un cranio perfettamente tondo.

“Sergio?”

“Forse non hai perso solo mezzo udito, ma anche metà del serbatoio di ricordi, bella! Tutto questo tempo per darmi un nome, a me che ti ho sverginato e ti stavo portando all’altare?”

Alice si lanciò verso la porta a vetri alle spalle del suo interlocutore, per controllare che fosse chiusa. Era sempre stato di un’irruenza estremamente scorretta nel parlare e sempre lo aveva trovato insostenibile, eppure era vero. Tre anni della sua gioventù erano stati sprecati in compagnia di questo piccolo uomo dal pene spaventosamente enorme.

“Chi ti ha detto dell’incidente?” gli domandò, sistemandosi la camicia di seta, incollata sempre di più al suo corpo accaldato.

“Fa un caldo mostruoso. Perché non abbassi l’aria condizionata?”

“Ti ho chiesto…” disse Alice, facendosi seria.

“Avanti, lo so e basta”- la interruppe- “Non ho molto tempo. Me ne hai fatto perdere già molto a causa di questa tua sordità. Quindi se non ti dispiace…” facendole cenno di tornare al suo posto, mentre lei lo guardava atterrita, in cerca del pulsante per refrigerare l’aria immobile.

“Ma cosa vuoi?” grugnì, sedendosi con garbo sulla poltroncina girevole.

“Non mi hai nemmeno ringraziato per i fiori” l’adulò Sergio, indicando i tulipani rossi, adesso tutti spampinati. “Sono ancora i tuoi preferiti?”

“Si” rispose seccamente. “Ora vuoi spiegarmi cosa sei venuto a fare qui? Come sai che lavoro qui, che non sento più da un orecchio e, soprattutto, che cavolo vuoi da me?” disse lei, senza alterare minimamente il suo tono di voce, sempre stato di velluto.

“Continui ad avere la più bella voce che abbia mai sentito. Spero che l’incidente non abbia ripercussioni negative”

“Ti ringrazio della preoccupazione. Rispondimi”.

“Non posso”.

Si guardarono. Alice non aveva mai notato quanto penetranti fossero quegli occhi, o, forse, erano stati semplicemente trasformati dalle vicende successive di cui lei non aveva nessuna vaga cognizione. L’ultima volta che aveva sentito parlare di lui era stato qualche anno dopo la fine della loro relazione da una vecchia compagna di scuola, Marina, che le aveva rivelato quanto Sergio ancora pensasse a lei e fosse in cura da uno psichiatra.

Ma erano passati più di 10 anni da allora.  Cosa voleva quest’uomo da lei?

Cercò delle caramelle nel cassetto della scrivania.

“Vuoi un po’ d’acqua? Un caffè?” gli chiese, senza interrompere la ricerca nervosa delle sue gommose alla frutta.

“Non ho tempo, mia cara.” Rispose, tirando fuori dalla tasca una pistola che posò sul tavolo.

Alice sorrise. “Sei venuto ...”

“No, non sono venuto per ucciderti.”

Lei inghiottì velocemente le tre gommose che aveva già in bocca. Mela, mora e banana, impiastricciate in un orribile sapore nel cavo digerente riuscirono a ricordarle l’esistenza di un senso, qualcosa cui aggrapparsi per dominarsi in quella situazione incomprensibile.

“Sono contento che tu non abbia messo immediatamente la mano sul telefono per chiamare la polizia”.

Lei sorrise di nuovo. “Sarebbe cambiato qualcosa?” disse, cercando di non far venire meno il suadente timbro della sua voce.

“Ti avrei ucciso” biascicò Sergio, quasi sbadigliando. “Tra qualche minuto ti alzi e abbassi le veneziane, annunciando alle tue colleghe, se vorrai, che hai molto da parlare con un vecchio amico che non vedi da tempo” - disse, posando una mano su quella P38 la cui canna restava comunque in direzione di Alice. “Mi hai sentito?”

Lei annuì. “Dimmi tu quando”.

“Ora.”

Mentre faceva quanto minacciatole da quell’avventore venuto dal passato, Alice non era più nel suo corpo. Riusciva a guardare la scena dall’esterno e, trovandola, dopo tutto, esilarante, tratteneva delle improvvide risate. La pistola le portò alla memoria il ’77, l’anno della sua nascita. Le piacque pensarlo un segno del destino.

Si sedette, accavallò le lunghe gambe nude e attese che lui prendesse parola.

“Quando mi hai lasciato, avevo 21 anni e moltissime speranze di poter diventare un grande imprenditore, inserendomi nell’azienda di materiale fotografico di mio padre. Ma ho dovuto fare i conti con qualcosa che non conoscevo. Una forza capace di annientarmi, di spegnere l’entusiasmo che se ti sforzi di ricordare era il mio.”

“Si, ricordo” disse lei compiacendolo, ma, provando un successivo timore che questo atteggiamento l’avrebbe irritato, subito aggiunse: “Per quanto ritengo che a quell’età fosse piuttosto naturale averne… Giovani, spensierati, ancora poco coscienti della pesantezza del vivere com’eravamo…”.

Lui la guardò. Fortunatamente non commentò se non con un’alzata di quelle folte sopracciglia nere e proseguì.

“Ciò che non sai è che non ho potuto mai più lavorare perché tu sei diventata la mia ossessione. Il mio chiodo fisso, il pensiero che accompagnava ogni santo momento della giornata. Ti ho seguito svariate volte, conosco ogni dettaglio della tua vita privata. Molte giornate le ho trovate meravigliose, in piena consonanza con quanto immaginavo fossi tu, altre deludenti. Come quando sei andata a letto con quell’attorino da strapazzo solo per poterti fare presentare la tua attrice del cuore… Come si chiama?”

“Valeria Golino”- ripose con un filo di bellissima voce.

“Esatto- proseguì Sergio - Che ci troverai, poi…Mah! O quando hai aiutato la fidanzata di tuo fratello a fargli le corna, solamente perché consideravi lui un coglione e pensavi che non gli potesse fare male essere tradito ogni tanto da una che ritenevi infinitamente superiore da ogni punto di vista a lui. Ho ascoltato ogni tua telefonata, so cosa mangi, so come dormi, so che viaggi hai fatto, di quali letture ti nutri. E che vuoi scrivere. Non è facile all’inizio, ma poi non è impossibile come potresti credere adesso monitorare la vita di un altro essere umano. Certo, molti pensieri non li puoi catturare, ma da molti diari ne ho avuto nozione.

E ho capito che tu non mi hai mai pensato. E che io sono stato un coglione ad averti in mente per così tanto tempo. Un pazzo a cercarti in questo modo patologico, del quale adesso non c’è neppure bisogno che tu abbia paura o faccia domande. Perché tutto ciò che devi fare adesso è prendere questa pistola e uccidermi. Io sono stato lo sciocco. Io ho avuto l’insana idea di portarti con me per oltre 12 anni. Ho distrutto la mia vita, non ho più voglia di ricominciare. È tardi. È tardi.

Ho visto con quale capacità sei riuscita ad asportarti un orecchio, a bruciartelo, cazzo! Comunque, vedo che te l’hanno ricostruito perfettamente.

So che sei capace di porre fine al mio inferno. Sei tu che devi farlo. Non lo saprà mai nessuno. Ho già pensato a tutto. Tu devi solo sparare. C’è il silenziatore. Oggi è venerdì, hai due giorni in cui l’agenzia sarà chiusa per sbarazzarti del mio corpo, senza lasciare tracce. Nessuno sa niente di me, non sarai coinvolta, credimi. Non devi farmi che questo favore, tu che mi hai distrutto la vita puoi trovare la possibilità di rifarti del tuo crimine, uccidendomi sul serio. Ora sarà una liberazione.”.

 Si fermò per prendere fiato. Si guardò intorno e, avvistato il dispenser di acqua, s’alzò per andare a riempirsi un bicchiere.

Lei restò immobile. Non disse nulla. Qualunque frase avesse detto, del resto, era chiaro ormai che lui l’aveva già prevista. Avrebbe saputo rispondere anche ad un’esortazione al suicidio. Era di una lucidità estrema. E la cosa che più la paralizzava era che non riusciva a ricordare per quale motivo lui si fosse tanto innamorato di lei. Questo dubbio non riuscì a trattenerlo.

“Perché mi hai amato tanto?”

Sergio posò il bicchiere senza fare il minimo rumore.

“Non ha più importanza. Non lo so nemmeno io.”

Le 19.

Le ragazze andarono via, dopo aver urlato uno stridulo “Chiudi tu” che il suo orecchio solitario non riuscì a trasfigurare in un suono delicato.

Soli, in quell’agenzia di viaggio, pronti per cominciare l’ultimo viaggio. Uno solo dei due sarebbe partito. Lei sapeva bene che ciò che lui diceva non poteva essere vero. Alla fine, le avrebbe sparato. Eppure non aveva paura.

Sergio attaccò l’ipod al pc e mise Vivaldi a volume molto alto.

Si guardarono a lungo.

“Lo sai? Non mi piaci nemmeno più” disse, quasi sommessamente.

Non c’era disprezzo nelle sue parole, solo una spietata ironia.

Voleva davvero morire quest’uomo giovane, non bello, non raffinato, non equilibrato, ma, dopo tutto, dotato di un indecifrabile fascino e di una grandissima abilità sessuale?

 

 

Assolo di violini dell’Inverno. Crescere di disperazione. Rincorsa di qualcosa che non c’è. Il suono si fa più morbido. È ora un turbine che raccoglie tutte le foglie della vita, siano esse cadute incurantemente, siano state deliberatamente recise dall’albero. Cresce. Tutto diventa plumbeo senza concedere all’occhio umano di scorgere i passaggi di quel fluire indomito. Rapido, sempre più rapido, cadenzato dal tocco di un pianoforte ben ritmato. Fuso, come cioccolata calda sorseggiata nelle sere gelide, quando tornava con le gambe gonfie e assonnata accendeva lo stereo, dopo aver staccato il telefono e abbassato le serrande. 

Ecco. La parte più struggente del concerto. È una piazza di paese con pozzanghere, in cui la gente, rinchiusa nelle case per il temporale, comincia a comparire lentamente, ripopolandola con i suoi cappelli, le sue pellicce voluminose, il suo noioso vociare, mentre la fontana, cheta, ha continuato a zampillare, distante da ogni umana preoccupazione.

Un raggio di sole. È primavera.

Fuori c’è ancora luce. La piccola finestra taglia in una cornice striminzita la larga strada che costeggia l’edificio dell’agenzia. Due alberi e un bar sempre vuoto. Non sa come si chiami l’uccello che è appena passato. Si ferma a guardarlo compiere piroette intorno al platano, interrompere il suo volo qualche istante e ricominciare. Non ha da curarsi che del suo sguardo, della sua traiettoria. Non custodisce in sé ricordi, non deve lottare con insorgenze del passato, squarci di memoria, torturarsi per l’inafferrabilità di ciò che cela la carne di chi gli sta accanto. Nutrirsi, volare, riprodurre la sua specie. Tutto qui. E se una ragione è data anche a lui, la usa solo per la sua autoconservazione.

L’estate.

Temporale estivo.

Tentare di indovinare la consequenzialità dei pensieri di questo uomo disperato davanti a lei, ora raccolto in meditazione, con la testa tra le mani, tremante, cui non dice e non dirà una parola. Forse sarebbe bello provarci, scrollare le proprie riflessioni da ogni torpore per capirlo, ma sarebbe una semplice illazione. La situazione è chiara. Intuizioni poetiche, ricerche di trascendere in un’estetizzazione gradevole quello che stava accadendo, approfittando dell’impasse, della suggestione creata da Vivaldi e dalla bella luce aranciata che sembrava ribollire le pareti rosate, quasi muovendole dalla loro fissità, ebbene tutto ciò era un vezzo che apparteneva a chi non è disposto ad accettare la miseria della esistenza e pensa di dominarla cercando appigli di sapore letterario per resistere alla pazzia del nulla.

No. Illusioni, tappeti di illusioni avevano arredato il suo vivere. L’aveva compreso da tempo. E non sarebbe tornata indietro, nemmeno adesso, nella resa dei conti che chiunque forse si immagina vivrebbe dando sfogo alla propria immaginazione, alla fiducia, alla disperazione, a qualcosa di irrazionale, tale è lo scandalo del pensar la propria morte.

Perché, allora, le tornava in mente l’odore della crema solare nel tubetto blu che sua madre le spalmava sulla schiena con una delicatezza non riservata in altre occasioni?

Sergio consuma adesso le nocche della mano sinistra strofinandola ripetutamente sul mento. Ha la testa inclinata, lo sguardo rivolto verso il linoleum verdino e la bocca serrata forzatamente.

Autunno.

Gli strumenti sembrano interrogarsi su come concepire questa stagione di passaggio. Miscuglio di tentazione di sprofondamento in quiete adamantina e timore corrosivo di imprevisto dolore.

Suo padre se ne andò una mattina di novembre. Fece i bagagli durante la notte e sparì senza lasciare nessuna traccia, nemmeno una lettera. Quell’anno Alice avrebbe dovuto laurearsi in storia dell’arte. Ma qualcuno che combattesse con la depressione di sua madre, con le allucinazioni di Corrado, eroinomane da anni e l’Alzheimer di nonna Adelina, doveva pur esserci. Non aveva mai sognato un futuro radioso e lasciare l’università le sembrò anzi solamente un attestato di normalità. Un poter infrangere le regole che aveva sempre rispettato, recitando la parte della figliola saggia e perfettina, odiandosi perdutamente per non essersi saputa imporre diversamente nell’immaginario delle sue conoscenze, parentali o meno che fossero.

La musica risucchiata nel vuoto.

L’attesa prima del risorgere dei violini.

Adelina morì per ultima, due anni prima, nella casa di riposo che trasformò per sei mesi in un inferno per gli altri ospiti.

Alice trovò dei graffi sulla parete accanto al letto di ottone in cui le inservienti le raccontarono che sua nonna morì con gli occhi aperti, mentre stavano servendo la colazione.

Lesse scherno e sollievo in quelle parole, ma non si offese. Accarezzò quella fronte che baciava spesso da piccola, osservò a lungo la camicia da notte senza la minima macchia e i piedi nudi, violacei, con le unghie gialle, ma ben tagliate e pulite. Non c’erano troppe rughe su quel viso così simile al suo. Le parve addirittura che fossero diminuite, o, forse, era la penombra bonaria che le impediva di individuare solchi di malessere e angoscia, con cui lei aveva rinunciato di lottare.

“Non provi pentimento per averla portata qui.” Le disse il medico, carezzandole la spalla, forse intuendo in quella contrazione della sua espressione un cedimento. Sorrise, si alzò e andò via confusa, infilandosi nel primo cinema che incontrò per strada.

Le corde pizzicate degli archi seguendo la traccia dell’autunno di Vivaldi si vanno addomesticando, arrendendosi al passaggio di testimone alla nuova stagione glaciale. La vendemmia è lontana. Ci si condanna all’attesa che dalla cenere nascano, presto, altri fiori.

Quella notte di novembre, un cane attese Alice all’uscita del cinema, accompagnandola nel tragitto fino a casa. Le tornano in mente quei passi lasciati dietro di sé, quando camminava piangendo, alternando singhiozzi ad irritate sbirciate verso quella bestiola secca, che non avrebbe intenerito neanche la più ipocrita delle dame di carità, ma che, evidentemente, si sentiva attratto dal suo pellegrinaggio senza meta.

Con il suo pelo incolore, sul quale il riflesso del neon di via Pascoli sembrava infilzare dei chiodi di luce gelida, le sembrò simile a quegli scheletri che aveva appena visto nella scena della tempesta di quel film americano. Decine di bei marinai bruciati dal sole in pochi istanti travolti dalle onde gigantesche del Pacifico e mostrati giorni dopo dondolare, scricchiolando, sui resti di un’imbarcazione distrutta.

La decomposizione. I graffi.

Come si chiamava il film…Che importa. Ricorda però benissimo di essersi trascinata per ore con quel malandato scudiero per ogni strada, vicolo, viale e giardino della città in cui aveva sempre vissuto, solo per non tornare a casa. Solo per non abbandonare quel silenzio notturno, capace di avvolgere come la carta luccicante di un uovo di Pasqua la dolcezza e la sorpresa, quasi sempre banale, che all’improvviso erano sorte nei suoi pensieri.

Qualsiasi richiesta interiore di chiarimento sul senso di quella porcata cinematografica i suoi circuiti neuronali non erano riusciti ad esaudirla. La regia di quel film orrendo era stata complice dell’amplificare l’angoscia che la scortò quella notte. In pochi mesi le sue radici si erano dissolte. Decomposte. Le grida di sua madre, il male tenace di Adelina, e poi quei graffi…Il lancio nel vuoto di suo fratello, emulo della mamma…biglie che rotolavano a folle velocità sul piano inclinato del suo ragionare, ma che d’un tratto interruppero la loro discesa.

 Come sorge un pensiero? Cosa ha il potere di catapultarlo in mezzo agli altri e spazzarli via?

Perché chiederselo adesso, quando sa che probabilmente tra poco un proiettile cancellerà ogni dubbio e nessuna debole invenzione filosofica avrà il minimo valore?

Alice non ha risposte. Come sempre, solo domande. Ma fu allora, in quella peripatetica ricerca notturna, che cominciò a rendersi conto di quanto quella condizione di totale solitudine era ciò che aveva sempre cercato. Non sdegnò persino di dare una carezza a quello spelacchiato quadrupede quando finalmente all’alba rincasò, addormentandosi sorridendo. Il pensiero di non aver più nulla da difendere fu il miracoloso calmante che, da quella notte, non si schiodò più da lei.

Vivaldi ha appena smesso di suonare.

E Sergio è sparito.

 

 

Capitolo 2.

 LA CADUTA

 

L’orologio segnava le 19:38. Alice, rimasta al suo posto in quell’interminabile mezz’ora, non riusciva a spiegarsi se si fosse immersa in un’inconscia operazione rammemorante così a fondo da distrarsi e non vedere la fuga del suo potenziale assassino.

La pistola era ancora sul tavolo, così come i tulipani rossi. Sicuramente Sergio doveva aver approfittato del suo chiudere gli occhi mentre ripensava al cane scheletrico incontrato il giorno del lutto del suo ultimo familiare. Un vero codardo, pensava. Eppure non riusciva a smettere di tremare,  nonostante il pericolo fosse svanito e potesse finalmente andare a casa a riempire lo stomaco vuoto dalla sera prima, giacché a pranzo aveva optato per una nuotata in piscina.

Nessuna fame effettiva. Ma aveva bisogno di uscire da quella stanza, diventata un covo di fumose reminiscenze e sottili timori che solo adesso riusciva a percepire come tali.

Spense il computer, gettò i fiori freddamente nel cestino e si alzò.

Mentre raccoglieva le carte, notò che la poltroncina dove era stato seduto quell’ossessionato individuo ospitava qualcosa di nuovo. Si avvicinò e affondò la mano sulla stoffa ancora calda per raccogliere uno strano biglietto, che recitava:

 

Due uomini si fronteggiano (scritto in inglese)

uno chiede all’altro: “Chi sei tu?”(in francese)

l’altro risponde : “chi sei tu?”( in tedesco)

Questa è la vita.( in spagnolo)

Vince chi non aspetta (in cinese)

Che l’altro dica: “io sono”.(in arabo)

Ma lo osserva vivere  (in greco)

Rispondendo ad entrambe le domande.(in russo)

Cerca il filo. Sergio

 

Alice lesse più volte fino alla fine, senza comprendere pressoché nulla, eccetto l’invito finale.

 Il  silenzio tombale e la luce violetta stimolavano la sua sensazione di smarrimento che iniziava a non tollerare più. Nervosamente batté i piedi a terra, tenendo serrato il biglietto nella mano sinistra e s’accorse di una strana resistenza opposta da quella carta.

Un filo di seta blu attaccato ad un angolo del foglietto stropicciato, ecco cos’era.

Non occorre esigere troppa razionalità, adesso, restando scettici sulla capacità della seta di imprimere potenza alla floscia cellulosa che Alice stringeva in pugno.

Vi basti sapere che lei sentì un fastidio tale da disorientarla, come quando una puntura di zanzara spazientisce ulteriormente chi invano si sventola per sopravvivere al caldo torrido di una spiaggia affollata.

“Se cercare vuol dire seguire…” si disse, senza sentirsi stranamente ridicola nell’accovacciarsi e procedere a carponi sotto la scrivania, dove il filo resistente svolgeva la sua morbida traiettoria verso una grande botola, cui non aveva mai in sei anni prestato attenzione.

“Non è possibile…Un tombino? Una botola? Che cavolo è?” si domandò esitante Alice.

La perplessità sull’aprire o meno quel varco nasceva legittimamente dal timore che Sergio la aspettasse furente, pronto ad ucciderla. Nella sua follia, magari, aveva costruito questo passaggio sotterraneo durante la notte, dispiegando il suo piano criminale alla maniera dei “criminali da strapazzo” di Woody Allen. Solo che per quanto da strapazzo Sergio potesse essere, la stancava pensare ad ipotesi umoristico-noir.

Sentiva di nuovo la noia, era più irritata che sorpresa da quel momento surreale, anche perché la fame iniziava a ridurre a brandelli ogni possibile ragionamento.

Con un gesto di stizza, sollevò il coperchio e lasciò che i suoi occhi registrassero la presenza di scalini, regolari e lucidi, che scendevano giù, in quella cavità oscura dove, certamente, non avrebbe trovato ristoro per il suo stomaco brontolante. Tuttavia vi si introdusse. 

La noia non è troppo diversa dalla curiosità, in fondo, se è vero che una buona dose di incoscienza appartiene ad entrambe./



CHIOSA AD ALICE

Consigli per sopravvivere alla e nella postmodernità:

 

 Se queste pagine potessero crepitare, lettore, se tu riuscissi a fondere i tuoi stessi dubbi con quelli della narratrice, se tu “sentissi” che c’è un’oscura provenienza da cui giunge infinito un lamento per la condizione di disagio che ci costringe a conoscere milioni di cose e non avere il potere di modificare ciò che abbiamo scoperto come atrocemente ingiusto…

Se tu sentissi il timore perpetuo di non riuscire ad intendere la parola giusta da dire, il momento adatto, il luogo ed il destinatario adeguati a far sì che il messaggio che brucia in te possa venir colto nella sua interezza...

Se, al di là dello stile, della vicenda narrata, delle suggestioni provocate dai personaggi e le loro interazioni, tu sapessi osservare dentro te stesso il sorgere di una domanda sulla legittimità che il nostro secolo si illude di vantare riguardo la sua “civiltà” ed il suo progresso, potresti anche strappare tutte le pagine di questo libro e dargli fuoco, lasciando comunque immensamente soddisfatta chi scrive di averti reso dubbiosa/o.

C’è una spiegazione dietro questo confessare l’istinto pedagogico che sempre accompagna uno scritto.

 Bisogna scoprire le carte e, per quanto il rischio sia sconfinare nel didascalico- e per una chiosa, in fondo, potrebbe ancora essere lecito- ricordare quanto questo romanzo vorrebbe che la violenza cui si sottopone il lettore nel portare avanti l’intendimento dei caratteri grafici, delle loro immagini che interpreterà a suo modo ma sono state scelte per lei/lui da una figura invisibile che risponde al mio nome, non venisse percepita come tale.

Ciò che mai sapremo, ciò che non riusciremo mai ad afferrare, costringe ad un’inquietudine che l’uomo di oggi si trova a combattere con molteplici distrazioni talmente distraenti da far smarrire l’essenziale.

Il moralismo è insano. Il dogma pericoloso.

 La strada che posso suggerire è di sospirare, custodendo nel cuore la voglia di non tradire il rispetto di chi c’è accanto e di chi c’è distante, il rispetto per ogni senso naturale che ci compone e che un’alienazione mediatica rischia di atrofizzare, rispetto per la ragione che una mancata collaborazione con il desiderio del bene altrui , prima ancora che del nostro, rende obsoleta ed il rispetto per tutti gli spiragli alla trascendenza che solo gli uomini hanno in potere di incontrare nella loro esistenza, attraverso la musica, l’arte, la letteratura, la fede, la filosofia...

Un cuore ricco di questi moniti interiori resta per me il solo cuore buono che la donna e l'uomo, di ogni luogo e di ogni epoca, dovrebbe curare di affinare in sé, sfidando le esperienze dolorose, che la vita regala in abbondanza, con una tenacia superiore a quella riposta nel perseguire le gioie dell’attimo, spesso pagando un prezzo che difficilmente potrà tradursi in effettivo “valore”.

La sola illusione cui Alice dovrebbe resistere è quella del far “come se” corpo e anima suoi e di chi c’è intorno a lei potessero fondersi in un sorriso disarmato e disarmante, che venera la vita in ogni sua forma e costruisce con passione il suo percorso esistenziale per lasciare il mondo che lo ospita migliore di come l’ha trovato.

Gli obiettivi da prefiggersi si rinnovano di continuo, ma un accordo tra la norma interiore che educa al rispetto reciproco e l’urgenza sollecitata dalla sofferenza altrui che, per poter essere attutita, spesso richiede un profondo rivolgimento della norma esterna, ebbene tale accordo è l’unica universale norma dell’etica che, fino ad oggi, mi sembra sia possibile rintracciare come il più inalienabile tesoro dell’umanità.


Commenti