Cébé, Piano celeste, 2014. |
"Dio ci ha dato due orecchie ma soltanto una bocca per ascoltare il doppio e parlare la metà",
Epitteto
La musica unisce, divide, innalza, abbassa, accende, seduce, fa evadere, fa inserire. Invita alla calma o alla riflessione, rigenera, ricarica, procura gioia o strugge con delicato pudore.
Allarga la voglia di socialità, respinge chi, per pregiudizio, non sa riconoscerne la bellezza, così da non vedere più che la musica contiene la risposta a tutti i drammi del mondo.
È il linguaggio migliore che l'umanità sia stata in grado di inventare, è più divina che umana e senza di essa la vita, come diceva Nietzsche, sarebbe un errore.
Per essere tale, ci dovrebbero essere strumenti suonati con talento e voci in grado di interpretare e trasmettere quello che si insinua tra una nota e l'altra come un testo.
Ma questo può anche essere ininfluente e lasciare che la musica sia potente, anche se le parole sono incomprensibili, banali o addirittura assenti.
La ritmica può essere più o meno orecchiabile, il pezzo può fare ballare o costringere alla paralisi del tormento.
Adesso sto ascoltando Keith Jarrett. Non mi viene certamente di ballare, ma di perdermi negli abissi della mia interiorità, ritrovare ricordi sepolti e progettare futuri più radiosi.
Ascoltare la musica è una medicina che guarisce le ferite dell'anima, costringendo la riflessione tormentosa a dileguare in un atto di intuizione magica che annienta la distanza tra chi ascolta e chi suona.
L'effetto catartico della musica per me è sempre stato centrale, ma la mia ricerca non è che soggettiva ed influenzata da decine e decine di variabili che non mi va neppure di elencare. Fatto sta che è un tipo di ricerca che naturalmente non mi sognerei di imporre in alcun modo come modello, ma non può comunque somigliare a quello di un adolescente oggi.
E il motivo penso che sia ancora una volta da additare nei riflessi dell'era tardo capitalista, che guasta e finisce con l'asservire anche ciò che di più prezioso esiste per l'essere umano a criteri che di "estetico" non hanno più niente.
La musica è un "capitale" che non dovrebbe venire assoggettato alla sfrenata ansia di successo da parte di chi canta, soccombendo a canoni di marketing e ascolti, volumi di affari e pubblicità permanente anziché alla sperimentazione d'avanguardia.
Eppure, da anni e anni, banale sembra anche ricordarlo, succede proprio questo: la musica si è capitalizzata.
E gli spiragli entro cui questo fenomeno può tentare di venir disinnescato sembrano sempre meno efficaci.
Chi ascolta consuma e chi suona produce oggetti di consumo che assai probabilmente non sono più assimilabili nemmeno lontanamente alle canzoni che hanno segnato la mia formazione personale.
Ma questo accade più che per responsabilità dei singoli, per via di un sistema che si alimenta di questo circuito nevrotico e ossessivo, che è l'estrema degenerazione del ritmo della fabbrica taylorista applicato al sacro tempo libero, entro cui provare a cercare sinfonie in grado di farci vivere meglio.
La frattura tra generazioni è decisiva, ma è inutile precipitare in un catastrofismo che vede nel nuovo che avanza solo corruzione e barbarie.
Perché siamo tutti situati nella stessa epoca di profitto senza pietà, tutti ammassati in una vetrina che perpetuamente espone merci che siamo costretti a digerire senza interrogarci a lungo sulla loro effettiva qualità.
Ci vuole dialogo, ascolto, confronto che non si barrichi in rassicuranti convinzioni di detenere lo scettro del buon gusto né da una parte, né dall'altra.
Concludo inserendo qui il post che ho scritto l'altroieri su facebook, durante la Kermesse sanremese che, come un rito atteso e necessario, anche quest'anno ha animato le discussioni della società italiana.
Non credo davvero che la famiglia possa opporsi alla società e remare contro i suoi "frutti" considerati degenerati. Anche perché la formazione adolescenziale prevede, al contrario, proprio un momento conflittuale rispetto agli ideali genitoriali, che è decisivo per la strutturazione della propria personalità.
Ma mi auguro esistano ancora roccaforti di resistenza entro cui sia possibile coltivare il proprio gusto con lentezza, cercare il proprio "bello", oltre gli stereotipi e i modelli imposti dalla massificazione globale, in cui tutti sono al corrente e nessuno ha la più pallida idea, come diceva Baumann.
Ecco il post:
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