LA HYBRIS DELL' UOMO/DONNA- MASSA OCCIDENTALE

 

Tommy Ingberg, artista visivo svedese

Riporto un bellissimo passo di Ortega y Gasset di quasi un secolo fa, che descrive alla perfezione l'assenza di limite che ha iniziato a diventare un marchio distintivo (e distruttivo) dell'essere umano occidentale dalla seconda rivoluzione industriale in poi.

Lo avevo già proposto un anno fa su Facebook, presentandolo così:

Genesi dell'uomo-massa, incontenibile viziato, ingrato, ottenebrato dalla cieca fede nel progresso, terribilmente superbo e irredimibile sperperatore.

Oggi aggiungo anche "donna" per evitare equivoci che alludano ad una purezza femminile che, come quella maschile, non è mai data a nessun essere umano, specie se occidentale, dal momento che questa tracotanza mista ad ingratitudine è, purtroppo, connaturata alla società capitalista.

Questo fatto credo che bisognerebbe accettarlo una volta per tutte, sebbene digerire la verità non sia per niente facile (come avevo scritto da ragazzina anche qui: aletheia ... beh, è sempre Facebook a ripropormi tra i ricordi sproloqui che poi trovo giusto inserire qui, il luogo perfetto per i miei atturramenti! Maledetti social!).

Ad ogni modo, volevo tornare a condividere anche in questo blog questo brano di Ortega che trovo importante perché, malgrado sia stato scritto cent'anni fa, è possibile riconoscere il ritratto esistenziale della nostra stessa contemporaneità tardo capitalista (il che sarebbe utile, magari, anche per riflettere su come rimediare alle nostre "tare sociologiche", chiamiamole così):

"Il secolo XIX fu essenzialmente rivoluzionario. E questo suo carattere non è da ricercarsi nello spettacolo delle sue barricate, che sono cronaca, ma nel fatto che collocò l’uomo medio – la grande massa sociale – in condizioni di vita radicalmente opposte a quelle che sempre lo avevano circondato. Invertì l’esistenza pubblica. E la rivoluzione non consiste nella rivolta contro l’ordine preesistente, ma nell’introduzione di un nuovo ordine che capovolge quello tradizionale. Per questo non si fa nessuna esagerazione nel dire che l’uomo generato dal secolo XIX è, agli effetti della vita pubblica, un uomo a parte rispetto a tutti gli altri uomini della storia. L’uomo del secolo XVIII si differenzia, naturalmente, da quello dominante nel secolo XVII, e questo da quello che caratterizza il secolo XVI, però tutti risultano legati da una parentela, sono affini e perfino identici nell’essenziale, se si confronta con essi quest’uomo nuovo.
Per il “volgo” di tutte le età, il concetto di “vita” significava, anzitutto, limitazione, obbligo, dipendenza; in una parola, pressione. Se si vuole, si dica oppressione, purché non si intenda con essa soltanto quella giuridica e sociale, dimenticando quella cosmica. Perché è quest’ultima che non è mancata mai fino a cento anni fa, data in cui comincia l’espansione della tecnica scientifica – fisica e amministrativa – praticamente illimitata. Prima, anche per il ricco e il potente, il mondo era un ambito di povertà, difficoltà e pericolo.
Il mondo che fin dalla nascita circonda l’uomo nuovo, non lo costringe a limitarsi in nessun senso, non gl’intima nessun veto né alcuna remora ma, al contrario, eccita i suoi appetiti, che, per principio, possono crescere illimitatamente. Allora accade – e ciò è molto importante – che questo mondo del secolo XIX e degl’inizi del XX non soltanto possiede le perfezioni e le ampiezze che di fatto ha, ma inoltre ispira ai suoi cittadini l’assoluta sicurezza che domani esso sarà ancora piú ricco, piú perfetto e piú vasto, come se godesse d’uno spontaneo e inesauribile accrescimento. Ancora oggi, nonostante alcuni segni che incominciano a fare una piccola breccia in questa fede categorica, ancora oggi sono assai pochi gli uomini che dubitano che le automobili saranno fra cinque anni piú comode e piú a buon mercato d’adesso. Vi si crede come nell’immancabile levata del sole. E la similitudine è giusta ché, in realtà, l’uomo comune, nell’incontrarsi con questo mondo della tecnica e socialmente tanto perfezionato, crede che lo ha prodotto la Natura stessa, e non pensa mai agli sforzi geniali di individui eccezionali che presuppone la sua creazione. E ancora meno s’indurrà ad ammettere che tutte queste facilità continuano a sostenersi su certe difficili virtú degli uomini, il cui minimo difetto volatilizzerebbe la magnifica costruzione.
Tutto ciò ci porta a segnare nel diagramma psicologico dell’uomo-massa attuale due primi tratti: la libera espansione dei suoi desideri vitali, pertanto, della sua persona, e l’assoluta ingratitudine verso quanto ha reso possibile la facilità della sua esistenza. L’uno e l’altro tratto costituiscono la nota psicologica del bimbo viziato. E, in realtà, non cadrebbe in errore chi volesse utilizzare la nozione di essa come una lente attraverso cui guardare l’anima delle masse odierne.
Erede d’un passato vastissimo e geniale – geniale d’ispirazione e di sforzi – il nuovo popolo è stato viziato dal mondo circostante.
Vezzeggiare, viziare equivale a non frenare i desideri, a dare l’impressione a un essere che tutto gli è permesso e che a nulla egli è obbligato. La creatura sottomessa a questo regime non ha l’esperienza dei suoi propri confini. A forza di evitarle ogni pressione dell’ambiente, ogni scontro con altri esseri, arriva a credere effettivamente che soltanto essa esiste, e si abitua a non tenere in conto gli altri soprattutto a non considerare nessuno come superiore a se stessa.

Questa sensazione della superiorità altrui gliela poteva dare soltanto chi piú forte di lei l’avesse obbligata a rinunziare a un desiderio, a ridursi, a contenersi. Cosí avrebbe appreso questa disciplina essenziale: “Qui arrivo io e qui comincia altri che può piú di me. Nel mondo, evidentemente, siamo almeno in due: io e un altro superiore a me”. All’uomo medio di altre epoche il suo stesso “mondo” insegnava quotidianamente questa elementare saggezza, perché era un mondo cosí duramente organizzato, che le catastrofi erano frequenti e non c’era in esso nulla di sicuro, né abbondante, né stabile. E invece le nuove masse s’incontrano con un paesaggio pieno di possibilità e inoltre sicuro, e tutto ciò pronto, a loro disposizione, senza dipendere da un previo sforzo, come appunto troviamo il sole in alto senza che ce lo siamo caricato sulle spalle. Nessun essere è riconoscente ad altri dell’aria che respira, perché l’aria non è stata fabbricata da nessuno: appartiene all’insieme di ciò che è qui, di ciò che chiamiamo “naturale”, perché non manca mai. Queste masse “viziate” sono poco intelligenti per non finire col credere che questa organizzazione materiale e sociale, posta a loro disposizione come l’aria, sia della stessa origine, dato che non sbaglia mai apparentemente, ed è quasi perfetta quanto quella naturale.
La mia tesi è dunque questa: la perfezione stessa con cui il secolo XIX ha dato un’organizzazione a certi ordini della vita, è la prima causa per cui le masse che ne beneficiano non siano disposte a considerarla come un’organizzazione, ma come “natura”.
In tal modo si spiega e si definisce l’assurdo stato d’animo che queste masse rivelano: non sono preoccupate se non del loro benessere, e, nello stesso tempo, non si sentono solidali con le cause di questo benessere.
Siccome non vedono nei vantaggi della civiltà una scoperta e una costruzione prodigiosa, che soltanto si possono mantenere a costo di grandi sforzi e cautele, credono che la propria funzione si riduca a esigerli perentoriamente, come se fossero diritti nativi. Nelle sommosse che la carestia provoca, le masse popolari cercano di procurarsi il pane, e il mezzo a cui ricorrono suole essere quello di distruggere i panifici.
Questo può servire come simbolo del comportamento che, in piú vaste e sottili proporzioni, usano le masse attuali di fronte alla civiltà che le nutre."

Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, 1930.

Non ho tempo di fare alcun ulteriore commento a questo scritto perché domani vado a Cuba e sono nel caos dei preparativi.
Vado a vedere se cubane e cubani sono meno corrotte/i di noi e vi faccio sapere.
Hasta siempre!

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