Alètheia

Gian Lorenzo Bernini, La Verità, 1646-1652



Nel 2007 scrivevo queste lunghe menate sulla verità:


 "La verità forse non esiste, ma se esistesse non è detto che la si saprebbe trattenere presso di sé.

Non è facile sopportarla, si può impazzire.

Bisognerebbe invece imparare a reggere la verità.

C’è qualcosa di strettamente specifico nella natura dell’uomo e della donna che li allontana dal riconoscere con piena certezza la verità riguardo al giudizio sulla propria persona, la verità delle esternazioni degli altri e la verità su fatti che non conoscono, ma il racconto dei quali pare troppo distante dalle proprie previe impressioni perché possa ammettersi verosimile, figuriamoci se “vero”.

Dire il falso è sempre possibile, nessuno garantisce che sia vero ciò che si è detto.
È solo un problema di fiducia?
No. Non lo è. Non ci fidiamo perché non possiamo fidarci. Io mi fido nel momento in cui non perdo troppi vantaggi nella mia vita. Altrimenti, anche consapevolmente, preferisco convivere con la falsità, arrendermi ad essa ed imparare a gestirla come se non esistesse, continuando, per altro, a sostenere le mie ragioni, perché mi servono, perché sono mie e se me le tolgono io non esisto più.
A volte ci si rende conto dopo necessariamente che quel che avevamo dato per falso era verissimo, ma non l’avevamo voluto considerare tale perché non potevamo tollerare di dover ridisegnare costellazioni di pensiero che ci avevano richiesto le fatiche di una vita. Dunque di menzogne occorre campare, se non si desidera trascorrere una vita da matti.
L’uomo e la donna comuni hanno quasi un’incapacità ontologica a vivere nella verità.
È così, la verità non la si regge non perché non ci si sappia fidare di essa, ma perché non potrà mai tramontare il bisogno estremo di falsità che, solo, consente ad uomini e donne di sopravvivere?
Probabilmente si. E Nietzsche è stato il filosofo che forse più di ogni altro ha reso possibile la scoperta di questa “VERITÀ”.
La verità è che l’uomo e la donna non amano la verità.
L’uomo e la donna non amano la verità di sapere che non amano la verità, quindi.
E non riconosceranno mai che la falsità è alla base del loro vivere, cercheranno di renderla più presentabile, perché il pregiudizio avverso alla falsità è millenario e non crollerà mai.
Chi potrà asserire di dire bugie con tranquillità, senza aspettarsi di venir guardato con disprezzo feroce da chi, pure, ha una vita non priva di ombre ma non trattiene l’orrore davanti ad espressioni così inconsuete e “pericolose”?
Se ammetti candidamente di non dire la verità, nessuno ti crederà più.
La fiducia è fondamentale. Sia quando ascolto gli altri che quando parlo devo aver fede nella verità di ciò che viene messo in ballo, perché non posso sempre testimoniare con prove la certezza di ciò che vien detto, come se mi trovassi in tribunale, in una causa senza termine, per un processo in cui non capisco mai se sono parte lesa o imputata principale, attaccata ferocemente dall’accusa, visto che sono l’uno e l’altro sempre.
Ma l’aver fede, che costa fatica immensa tutelare, viene forse stritolato davanti alla resa di chi si accorge che conviene, dopo tutto, fare finta di nulla, presentare un’altra verità, che offenda di meno, che mieta meno vittime, perché il suo effetto abbacinante è catastrofico, non ci si può permettere stragi devastanti.
E allora si dicono bugie ma non si ha la forza di ammettere che siano tali, inventandosi di voler vivere nella verità e volerla cercare durante la propria esistenza. È solo un’invenzione, dal momento che si lascia che quella rimanga uno spaventapasseri, non una vitale pulsione che regola gli sforzi comuni di cercar di dire le cose come stanno.
Si deve negoziare camuffando, sorridere celando, rassicurare mentendo. Fino a dimenticarsi che quelle erano bugie, fino a non aver più in mente il dolore della scoperta e il movimento repentino di accantonare tutti gli appigli che avrebbero condotto facilmente un commissario a smascherare il colpevole.
Si sceglie di salvare altro, per amore di quiete. Perché va salvaguardata la pace, l’armonia, la dignità dell’uomo (oooh), il quale potrebbe trovarsi improvvisamente esposto al pubblico ludibrio.
Chi si permette di alzare un attimo la voce, subito viene accusato di essere un censore compassato, che ha sbagliato epoca, è retorico, anacronistico, giurassico, duro, conservatore, incapace di accettare la flessibilità ed il caos positivo di questi tempi post-moderni. Tempi che pretendono un dialogo costante tra le parti, un tentativo di giungere ad un compromesso che faccia giustizia delle troppe vittime che un dogmatismo furioso ha lasciato appartenessero a tutte le epoche passate, senza aver nemmeno il coraggio di recitare un mea culpa.
Oggi non abbiamo più dogmi da sbandierare e non relativizziamo nulla, perché sappiamo che il dogmatismo e il relativismo sono mali oscuri, parenti stretti tra di loro, privi della sostanziale resipiscenza che aveva indicato a tutti Heidegger, suggerendo l’arretrare dell’uomo (e della donna, il Dasein, insomma) in una radura dove attendere l’essere, il suo avvento illuminante che lo protegge e che si chiama alètheia.
Nascondere. Non nascondimento. Quando finalmente ciò in cui viviamo sempre, questa condizione di finzione e falsità verrà riconosciuta per quello che è, e la svelatezza si realizzerà, come un evento, senza compiersi nel cervello di un singolo ma nella coscienza di tutti, quando questo magnifico evento accadrà non può dirlo nessuno. E nemmeno Heidegger lo preconizzò, né lo credette possibile. La nausea lo vinse, il disgusto per non aver potuto invertire le leggi della temporalità, lui che le aveva comprese meglio di tutti, lo annientò, lasciandogli come unica, splendida consolazione la poesia, lo stentato balbettare, che, allontanandosi dalla barbara pretesa di imbrigliare qualcosa, pure non può salvare chi continua ad annaspare nel nascondimento senza intenzione né di lavorare per scoprire il celato, né di attendere che si faccia essere.

Dopo Heidegger cosa succede? Lasciando stare la sua filosofia piegata alla fine al misticismo, come possiamo comunque tentar di pronunciarci correttamente, oggi, sulla verità?
Se la verità arriva sempre dopo, nelle fasi di passaggio giunge quando l’epoca che sta per cominciare sta già cedendo il testimone al periodo che succede quella, di cui non possiamo immaginare contorni, né possiamo osare dipingere come funereo.
Si proclama tanto la messa in discussione delle proprie stentate certezze, si invocano a gran voce rivoluzioni paradigmatiche come uniche strade per progredire sulla strada dell’umile conoscenza, ma quanto poco in effetti ciò si realizzi lo si vede anche negli ambiti accademici, dove di queste cose si discute giornalmente, ma non è raro che ci si trascini lapalissiani errori per anni, per non aver voluto dare ascolto a chi li additava come tali.
Tra la verità e chi la cerca si staglia un mare di superbia.
Forse generalmente non c’è nemmeno bisogno di vivere questo scarto come un dramma. Magari non occorre, si aggiungerebbe gratuitamente soltanto un altro motivo di sdegno per la propria specie che sembra digerire per lo più con facilità la propria indifferenza all’appurare certe faccende, restando orgogliosamente attaccata alla propria idea, sia pur clamorosamente smentita da fatti indubitabili.
L’uomo e la donna che si dicono dediti alla filosofia cercano la verità, però, in un modo molto più radicale.
Solo l’uomo e la donna che non si accontentano di nulla, che vogliono domandare tutta la vita, cercare senza sosta, perennemente inquieti, potranno avvicinarsi un po’ di più all’insostenibile assenza della “verità”, senza restare travolti dalla scoperta e senza rassegnarsi al proliferare di inefficaci e ingannevoli formule di retorica consolante.",

idiozie che tramortiscono, 2007
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Sono passati sedici anni e, tutto sommato, per quanto noiosa ed estrema fossi anche allora, oggi posso dire che forse ci avevo visto giusto.
La verità è lontana dall’apparire e restare presso di noi, in fondo è un processo che non può dirsi mai concluso.
Bisogna essere pronti sempre a rimettere nuovamente tutto in discussione, pensiamo al reperimento dei manoscritti hegeliani, ad esempio.
Forse lo sputo ci tornerà in faccia e dovremo scusarci per averlo oltraggiato così vilmente, noi impertinenti femministe, chissà!
L’ermeneutica è interminabile. I significati sono soggetti ad una trasformazione incessante e sorprendente.
L’importante dovrebbe essere mantenersi aperti al dialogo, non sprofondare nel mutismo e non ergere mai muri.
Ma è davvero possibile?
Rinunciare, molto spesso, è praticamente obbligatorio. Le fratture, le interruzioni sono molto più frequenti dei dialoghi.

Quanta pena per ricerche comuni che potrebbero pervenire a chissà quali sublimi vette se non ci si perdesse di vista e di voce! E, tuttavia, occorre accettare con garbo la finitezza, apprezzare i silenzi e andare oltre.

Meglio chiudere citando un celebre e splendido passo nietzschiano:

"Quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare. Tutti questi arditi uccelli che spiccano il volo nella lontananza, nell'estrema lontananza, di sicuro, a un certo momento non potranno più andare oltre e si appollaieranno su un pennone o su un piccolo scoglio- e per di più grati di questo miserevole ricetto!
Ma a chi sarebbe lecito trarne la conseguenza che non c'è più dinanzi a loro nessuna immensa, libera via, che sono volati tanto lontano quanto è possibile volare?
Tutti i nostri grandi maestri e precursori hanno finito coll'arrestarsi; e non è il gesto più nobile e il più leggiadro atteggiamento, quello con cui la stanchezza si arresta: sarà così anche per me e per te! Ma che importa a me e a te!
Altri uccelli voleranno oltre! Questo nostro sapere e questa nostra fiducia spiccano il volo con essi e si librano in alto, salgono a picco sul nostro capo e oltre la sua impotenza, lassù in alto, e di là guardano nella lontananza, vedono stormi d'uccelli molto più possenti di quanto siamo noi, i quali agogneranno quel che agognammo noi, in quella direzione dove tutto è ancora mare, mare, mare!
E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare? Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell'umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere l'India, ma che fu il nostro destino a naufragare nell'infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?"
(F. Nietzsche, Aurora)

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