VIOLENZA E CAPITALE

Il titolo di questo post allude ad un legame specifico tra violenza e capitalismo.

Perché il capitalismo spinge, secondo me, ad essere violenti? 

Risposta rapida e banale: perché la ricerca del profitto giustifica l'uso della forza contro persone ed ambiente, muovendosi in direzione ostinata e contraria tanto all'umanesimo, che fa di tutto per educare a essere civili, rivedendo nell'altro se stessi, quanto a qualunque rudimentale pensiero ecologista.

La società capitalista incoraggia ad adottare criteri del tutto opposti a quelli su cui si è fondata la stessa civiltà greca, che considerava sacra ed inviolabile la Natura. Ma non è solo dell'insostenibilità del capitalismo per ragioni di sopravvivenza dell'ecosistema che vorrei parlare oggi.

Ciò che vorrei brevemente discutere (nell'ora buco in cui vi scrivo) è il riflesso violento del Capitale nelle relazioni umane.

L'altro, nel capitalismo, è quasi sempre una minaccia che attenta alla ricerca di ricchezza.


 Ciò mantiene gli esseri umani nel bellum omnium contra omnes dello stato di natura rappresentato da Hobbes, perché la mano invisibile del mercato non dà carezze, ma soltanto schiaffi.

Qualunque forma di potere politico fa infatti fatica ad adattarsi a questo stato di cose. E poiché ogni economia precede la politica, finché il capitale rimarrà in vita, penso che ci saranno società violente, isteriche, accecate dal mito dell'iperproduzione a qualunque costo e, pertanto, aderenti a ritmi che di umano non hanno più nulla.

La violenza è oggi quasi unanimemente riconosciuta come capillarepervasiva e, a causa della diffusione di episodi drammatici in tempo quasi reale da parte della cassa di risonanza perpetua di media e social, direi anche permanente

La violenza non esisteva nel feudalesimo? Certamente sì, ma ciò che il capitale ha sgretolato è il principio cardine della convivenza umana, che è la solidarietà.

 Il capitale abitua e addestra fin da piccolissimi gli abitanti della società capitalista a una competizione sempre più spietata.

La cultura dei diritti moderna, nata in seno alla nascente società borghese della Rivoluzione francese, può essere un correttivo, ma non può eliminare una mentalità che è intrinsecamente votata alla violenza. Finché rimaniamo nel capitale, insomma, non potremo che essere violenti.

Il capitale, nella sua declinazione consumistica associata alla tecnologia, induce a consumare tutto e tutti, quasi fossimo vampiri assetati di beni superflui che non ci rendono mai migliori, solamente più dipendenti, solamente più schiavi.

Non solamente abbiamo succhiato tutto ciò che in questa bellissima Terra c'era con un'inaudita ingordigia, ma ci sentiamo incattiviti perché imprigionati nella nostra inattività e pigrizia iperboliche.

Non è nella fretta e non è nella furia che si coltiva l'anima umana.

Questo tempo frenetico guasta e rovina la capacità di recepire il bello, approfondire, sforzarsi di fare proprio un nuovo termine o un nuovo concetto, dare spazio ad un'emozione delicata che non vuole dileguarsi in un like.

 Questo tempo spegne l'entusiasmo dell'apprendimento, nega all'imparare la sua forza principale che è la pazienza, ottunde quotidianamente la determinazione formativa, perché rende sempre più difficile introdursi in un mondo che vada oltre i pixel e i reels, e che è il solo mondo in cui sentimenti e convinzioni smettono di galleggiare in maniera indeterminata, ma iniziano a cimentarsi in cammini arditi, lungo fitti sentieri immaginifici dove esperire libertà, grazia, bellezza, sacralità e darsi una forma più definita.

Ed è lo stesso mondo in cui mettersi alla prova con pedanti esami di coscienza, che al tormento sul non essere mai capaci di amare e perdonare abbastanza, alternano fasi di scoperta gioiosa di un'incantevole, quanto taciturna, spiritualità.

La violenza è figlia della superficialità, dell'immediato, dell'istinto bieco all'incontinenza, che ci rende peggiori di tanti altri esseri viventi.

Il capitalismo produce bestie diceva Fidel. E aveva ragione.

Nella società tardo-capitalista, dimentichiamo ed irridiamo la gratuità. 

Viviamo come intralci le occasioni che potrebbero farci scavare a fondo, penetrare in un argomento o cogliere sfumature particolari in certi atteggiamenti, costringendo a ribaltare i nostri punti di vista. Perché non abbiamo tempo e ci annoiamo immediatamente, dunque dobbiamo correre, dobbiamo smuoverci, sostare è reato, sostare è impossibile, sostare è da perdenti.

E così, mentre cresce un odio incontrollato per chi si ferma, si alimenta anche una spirale di violenza in costante espansione. 

Che fare, dunque? Come invertire questa deriva violenta che sembra ormai incontrollabile?

Cercare di economizzare la violenza strutturalmente connessa al capitalismo potrebbe essere un punto di inizio. Ma la riflessione dovrebbe essere continua, non omettendo di rivolgersi anche alla filosofia.

Tanti anni fa, per la precisione 17, scrivevo una corposa tesi di laurea in filosofia teoretica, che indagava il rapporto tra Gadamer, padre dell'ermeneutica, e Derrida, seminatore- per rimanere nel suo solco- della decostruzione. 

La tesi cercava di affrontare uno dei temi che considero più significativi della filosofia contemporanea, ossia il rapporto del logos con la violenza. 



Dubito che possa interessare qualcuna/o di voi, ma condivido solo le prime quattro pagine dell'introduzione di un lavoro di 270 pagine (quella di dottorato credo sia stata complessivamente più breve!)


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C'è, insomma, una violenza ancora più originaria di quella riflessa dal capitalismo: una violenza che ha a che fare con lo stesso "lògos" filosofico, in cui abita Polemos

La questione è immensa:

 La violenza non si elimina con la filosofia, ma l'ermeneutica o la decostruzione (o tutte e due insieme) possono ridurla?

Sono arrivata ad una soluzione? Ovviamente no. 

Del resto, come diceva Gadamer citato in apertura dell'introduzione, "l'essenza della domanda è il porre e mantenere aperte delle possibilità".

 La ricerca, pertanto, è sempre aperta, ma forse questo stesso blog si inserisce in quella non esaurita voglia di capire se, ragionando e discutendo, tra "circoli ermeneutici" riusciti e numerose interruzioni, possiamo effettivamente economizzare la violenza e non arrenderci definitivamente alla legge della giungla.

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