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James Steinberg |
Interrompo la sconnessione per condividere un vecchio articolo del giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuciski. L'articolo lo lessi nel 2007, anno della morte di Kapuciski, ed è la trascrizione di una Lectio magistralis tenuta a Udine nel 2006, prima dunque dell'avvento degli smartphone e l'inizio della frammentazione della nostra attenzione, anche su questioni vitali come questa.
Lo avevo inserito in una vecchissima nota su facebook, dove oggi lo posterò in forma ridimensionata e, comunque, troppo lunga per quello spazio che richiede poche, veloci battute che, quando non restano ignorate, mirano a generare una rapida approvazione o una fulminea contrapposizione polemica.
Alle più volenterose e ai più volenterosi, suggerisco la lettura integrale:
Mediare con l'altro e l'altrove nel terzo millennio
di Ryszard Kapuciski
<< Quando mi soffermo a riflettere sui miei viaggi intorno al
mondo - viaggi iniziati ormai moltissimo tempo fa - talvolta mi ritrovo a
pensare che i problemi più inquietanti in cui io mi sono imbattuto non erano i
fronti e le frontiere, non erano le fatiche e i pericoli, bensì una costante
insicurezza che mi poneva sempre le stesse domande: di che tipo sarà, come sarà
e come si svolgerà l'incontro con l'Altro, con le altre persone che oggi mi
capiterà d'incontrare lungo il cammino? Sapevo infatti che molto, se non tutto,
dipendeva da questo. Ogni incontro era un punto di domanda: come si svolgerà?
Come procederà? come si concluderà? Domande di questo tipo sono ovviamente
primordiali. L'incontro con gli altri uomini è sempre stato un'esperienza
universale e fondamentale per il genere umano. Gli archeologi ci dicono che i
primissimi gruppi umani erano costituiti da piccole famiglie-tribù composte da
35-50 individui. Se la società fosse stata più grande, le sarebbe stato
difficile muoversi velocemente e con efficienza. Se fosse stata più piccola, le
sarebbe stato più difficile difendersi con successo e lottare per la
sopravvivenza. Ed ecco che ora la nostra piccola famiglia-tribù prosegue il
cammino alla ricerca di nutrimento e all'improvviso si imbatte in un'altra
famiglia-tribù. Che momento importante nella storia del mondo, che scoperta
grandiosa! Scoprire che al mondo esistono altri uomini! Sinora il membro del
nostro gruppo primitivo, muovendosi all'interno dei 30-50 suoi simili, poteva
vivere nella convinzione di conoscere tutti gli uomini del mondo. E invece ecco
che nel mondo vivono altri individui simili a lui, altri uomini!
Ma come comportarsi di fronte a una rivelazione del genere?
Che atteggiamento assumere? Quale decisione prendere? Scagliarsi furiosamente
contro quella gente nuova? Incrociarli con indifferenza e proseguire? Oppure
tentare di conoscerli e di capirsi?
Questa scelta dei nostri progenitori ci sta ancora dinanzi
con immutata intensità, una scelta tanto essenziale e categorica quanto quella
antica. Come rapportarsi agli Altri? Quale atteggiamento assumere? Può accadere
che si giunga al duello, al conflitto, alla guerra. Le testimonianze di eventi
di questo tipo sono conservate in tutti gli archivi, contrassegnate dagli
innumerevoli campi di battaglia e dai resti di macerie sparsi in tutto il
mondo. Sono la prova della disfatta dell'uomo, che non ha saputo o voluto
venire a patti con gli Altri. Le letterature di tutti i Paesi e di tutte le
epoche si sono appropriate di questa situazione - di questa nostra tragedia e
debolezza - facendone un soggetto estremamente vario e ricco di atmosfere.
Ma può anche succedere che la nostra famiglia-tribù, invece
di assalire e combattere, decida di erigere uno steccato e di isolarsi. In
conseguenza di un atteggiamento siffatto, col tempo cominceranno a sorgere
costruzioni costituzionalmente simili l'una all'altra, come la Muraglia cinese,
le torri e le porte di Babilonia, il limes romano o i muri in pietra degli
Incas. Fortunatamente la terra è colma anche di testimonianze che documentano
un altro tipo di esperienza umana. Sono le testimonianze della collaborazione,
come i resti dei fori e degli scali, come i luoghi dove sorgeva l' agorà e il
sanctuarium, dove sono ancora visibili le sedi delle antiche università e
accademie, oppure dove si sono conservate le tracce delle vie commerciali, la
via della seta, la via dell'ambra, la via sahariana. In quei luoghi gli uomini
si incontravano, si scambiavano pensieri, idee e merci, commerciavano, facevano
affari, stipulavano intese e alleanze, rintracciavano scopi e valori comuni.
Ciascuno ritrovava in se stesso almeno una particella dell'Altro, ci credeva,
viveva in questa convinzione.
E dunque, ogni volta che l'uomo ha incontrato l'Altro, si è
trovato di fronte a tre possibilità: poteva scegliere la guerra, poteva
circondarsi con un muro, poteva instaurare un dialogo. Nel corso della storia
l'uomo ha sempre esitato nello scegliere una delle opzioni: sceglie l'una o
l'altra a seconda dell'epoca e della cultura. Nel compiere la scelta l'uomo è
mutevole, non sempre si sente sicuro, a volte sente il terreno mancargli sotto
i piedi.
Risulta difficile giustificare la guerra: io credo che la
perdano tutti perché essa è la sconfitta dell'essere umano, ne mette a nudo
l'incapacità di intendersi con l'Altro, di sentirsi nell'Altro, l'incapacità
alla bontà e alla ragione. In tal caso, di solito, l'incontro con l'Altro si
conclude con il dramma e la tragedia del sangue e della morte.
All'idea che ha spinto l'uomo a costruire alte mura e fosse
abissali per circondarsene ed isolarsi dagli altri, in età contemporanea è
stato dato il nome di apartheid. Questo concetto è stato ingiustamente limitato
alla politica del regime dei bianchi, oggi non più esistente, in Sud Africa. In
realtà la segregazione veniva praticata già nei tempi più remoti. In parole
povere, si tratta della concezione secondo cui - affermano i suoi sostenitori -
ciascuno può vivere come gli pare purché stia lontano da me, se non appartiene
alla mia razza, alla mia religione, alla mia cultura. Poco male, se si
trattasse solo di questo! In realtà ci troviamo di fronte alla dottrina della
disuguaglianza strutturale del genere umano. I miti di molte tribù e di molti
popoli racchiudono in sé la convinzione che solo noi, i membri del nostro clan
e della nostra collettività, siamo uomini, mentre gli altri, tutti gli altri,
sono semi-uomini o non sono affatto uomini. Com'è diversa l'immagine dell'Altro
nell'epoca delle credenze antropomorfiche, quando gli dei potevano assumere
forma umana e comportarsi come gli uomini. Infatti allora non era possibile
sapere se il viandante, il viaggiatore, il forestiero che si stava appressando
fosse un uomo oppure un dio somigliante all'uomo. Questa insicurezza, questa
intrigante ambivalenza è una delle fonti della cultura dell'ospitalità, quella
cultura che impone di dimostrare benevolenza al nuovo venuto dall'identità non
riconoscibile fino in fondo.
Ne scrive Cyprian Norwid, grande poeta romantico polacco,
nell'introduzione alla sua Odissea, quando riflette sulle motivazioni
dell'ospitalità in cui si era imbattuto Ulisse durante il viaggio di ritorno a
Itaca. "Laggiù, in ogni misero e ramingo forestiero si sospettava: e se in
lui fosse un Dio?... Non era lecito chiedere, prima di offrire ospitalità: chi
sarà il nuovo venuto?, ma non appena si era rispettata in lui la divinità, solo
allora si passava alle domande dell'uomo, e questo si chiamava ospitalità, e
per questo appunto la si annoverava tra le pratiche e le virtù pie. Tra i Greci
di Omero non v'era alcun 'ultimo uomo'! egli era sempre il primo, ovvero
divino".
Nella concezione culturale dei greci cui fa cenno Norwid, le
cose rivelano un nuovo significato, un significato benevolo nei confronti
dell'uomo. Porte e torri non servono solo per chiudersi all'incontro con
l'Altro: possono anche aprirsi a lui, invitarlo e ospitarlo. La strada non deve
necessariamente servire alle colonne ostili, ma può anche essere la via lungo
la quale giunge a noi un dio vestito da pellegrino. Grazie a questo tipo di
interpretazioni dei significati, cominciamo a muoverci in un mondo non solo più
ricco e vario, ma anche più benevolo nei nostri confronti, un mondo in cui noi
stessi desidereremo incontrare l'Altro.
Emmanuel Lévinas chiama "evento", e addirittura
"evento fondamentale", l'incontro con l'Altro: è - questa -
l'esperienza più importante, l'orizzonte più lontano. Come sappiamo, Lévinas fa
parte del gruppo dei filosofi dialogici, che comprendeva figure come Martin
Buber, Ferdinand Ebner e Gabriel Marcel (ai quali successivamente si aggiungerà
anche Józef Tischner), che hanno sviluppato l'idea dell'Altro - in quanto
essere unico e irripetibile - in più o meno diretta opposizione a due fenomeni
comparsi nel sec. XX: la nascita della società di massa, che sopprime la
peculiarità dell'individuo, e l'espansione delle distruttrici ideologie
totalitarie. Quei filosofi hanno tentato di salvare il valore per loro più
grande - l'individuo umano, ovvero io, tu, l'Altro, gli Altri - dall'azione
delle masse e del totalitarismo, che livella ogni identità dell'uomo; hanno
quindi diffuso il concetto di Altro per sottolineare la differenza tra
individuo e individuo, tra caratteristiche non scambiabili e non sostituibili.
Si trattava di una corrente estremamente importante che
salvava ed elevava l'essere umano, salvava ed elevava l'Altro con il quale -
come postulava Lévinas – non solo dobbiamo stare faccia a faccia e dialogare,
ma addirittura "assumersene la responsabilità". Per quanto riguarda
il rapporto verso l'Altro e gli Altri, i dialogici respingevano la strada della
guerra poiché essa conduce allo sterminio, criticavano l'atteggiamento
dell'indifferenza e dell'autoisolamento, proclamando invece la necessità - di
più, il dovere etico -dell'avvicinamento, dell'apertura e della benevolenza.
Nell'ambito di queste idee e convinzioni, da un analogo tipo di ricerche e
riflessioni, da un analogo atteggiamento, nasce e si evolve la grande opera
scientifica di Bronislaw Malinowski.
Il problema di Malinowski era il seguente: come avvicinarsi
all'Altro se questo non è soltanto un assioma o un'astrazione, bensì un uomo
concreto appartenente a una razza diversa, con credenze e valori diversi dai
nostri, con cultura e costumi propri? Prestiamo attenzione a un fatto: il
concetto di "Altro" viene il più delle volte definito dal punto di
vista dei bianchi, degli europei. Ma ecco che sto attraversando un villaggio
montano dell'Etiopia, inseguito da una frotta di bambini che mi additano
divertiti gridando: Ferenczi!
Ferenczi! Il che significa appunto: forestiero, diverso. Un
esempio di degerarchizzazione del mondo e delle sue culture. E' vero che
diversi sono gli Altri, ma per quegli Altri sono proprio io l'Altro.
In questo senso ci troviamo tutti nella stessa barca. Noi
tutti abitanti del nostro pianeta siamo Altri agli occhi degli Altri: io ai
loro occhi, loro ai miei. Al tempo di Malinowski e nei secoli precedenti,
l'uomo bianco, l'europeo parte prevalentemente a scopi di conquista, vuole
dominare nuovi territori, catturare schiavi, commerciare o convertire. Molte
volte sono spedizioni sanguinose: la conquista dell'America da parte di Colombo
e poi dei coloni bianchi, la conquista dell'Africa, dell'Asia, dell'Australia.
Malinowski parte per le isole del Pacifico con uno scopo
diverso: per conoscere l'Altro. Per conoscere i suoi vicini, i costumi e le
lingue, per vedere come vive. Vuole vedere e sperimentare tutto questo in prima
persona, sperimentare per poi testimoniare. Eppure un progetto a prima vista
così ovvio si rivela rivoluzionario, sovversivo. Esso infatti mette a nudo la
più o meno manifesta debolezza (o forse semplicemente la peculiarità) di ogni
cultura. Tale debolezza si fonda sul fatto che gli appartenenti a una cultura e
i suoi corifei difficilmente riescono a comprendere gli omologhi di un'altra
cultura.
Qualche tempo dopo il suo arrivo nelle Isole Trobriand,
l'autore di Coral Gardens constata che gli abitanti bianchi che vivono laggiù
da molti anni non solo non sanno alcunché della popolazione locale e della sua
cultura, ma ne hanno un'immagine del tutto falsa, contrassegnata da disprezzo e
arroganza. Allora Malinowski, a dispetto di tutte le consuetudini coloniali,
pianta la tenda nel bel mezzo di un villaggio e dà inizio alla sua coabitazione
con la popolazione locale. Non sarà un'esperienza facile. Nel suo Giornale di
un antropologo menziona molto spesso le difficoltà vissute, il malessere, lo
scoramento, la depressione.
Quando si viene strappati dalla propria cultura si paga un
prezzo altissimo. Per questo è molto importante possedere un'identità ben
definita e avere coscienza della sua forza, dei suoi valori, della sua
maturità. Solo così l'uomo può confrontarsi senza paura con le altre culture.
In caso contrario egli si nasconderà nella sua tana, si isolerà timorosamente
dagli altri. Tanto più che l'Altro è lo specchio in cui io mi guardo o sono
guardato, la superficie riflettente che mi smaschera e denuda, e indubbiamente
questo noi vorremmo evitarlo.
Interessante è il fatto che mentre nell'Europa di Malinowski si combatte la Prima guerra mondiale, il giovane antropologo si sta concentrando e sta svolgendo le sue ricerche sulla cultura dello scambio, dei contatti e dei riti comuni degli abitanti delle Isole Trobriand, a cui dedicherà la splendida opera Argonauti del Pacifico Occidentale, formulando una tesi tanto importante quanto raramente applicata da altri: "per dare il proprio giudizio, bisogna esserci".
Lo studioso espone anche una seconda
tesi, estremamente ardita per quei tempi: non ci sono culture superiori e
inferiori, ma solo culture diverse che in modo diverso appagano i bisogni e le
attese dei loro esponenti. Per questo l'altro uomo, l'uomo di altre razze e
culture, è una persona il cui comportamento - così come il comportamento di
ciascuno di noi – è contrassegnato dalla dignità, dalla deferenza per i valori
riconosciuti, dal rispetto per le tradizioni e i costumi. Se Malinowski
iniziò il suo lavoro nel momento in cui nasceva la società di massa, oggi noi
viviamo nel periodo di passaggio dalla società di massa a una società nuova, di
dimensione planetaria. Questo fenomeno è alimentato dalla rivoluzione
elettronica, dallo straordinario sviluppo di ogni genere di comunicazione,
dalla grande facilità di collegamento e movimento, ed anche dalle conseguenti
trasformazioni che intervengono nella coscienza delle ultime generazioni e
nella cultura intesa in senso lato.
Come cambierà allora il rapporto tra noi, uomini
appartenenti a una cultura, e gli uomini appartenenti a un'altra o ad altre
culture diverse dalla nostra? Che conseguenze ci saranno sulla relazione
Io- l'Altro nell'ambito della mia cultura e al di fuori di essa? E' molto
difficile rispondere in maniera univoca e definitiva, in quanto si tratta di un
processo in fieri in cui noi stessi siamo immersi, e pertanto non ci è data la
possibilità di assumere una distanza che consenta la riflessione.
Lévinas ha analizzato la relazione Io- l'Altro nell'ambito di
una civiltà storicamente e razzialmente compatta. Malinowski ha studiato le
tribù della Melanesia nel loro stato primordiale, non violato dagli influssi
della tecnologia, dell'organizzazione e del mercato occidentali. Ma oggi questo
è raramente possibile. La cultura sta diventando sempre più ibrida ed
eterogenea. Non molto tempo fa ho assistito nel Dubai a un fenomeno
stupefacente. Una ragazza, sicuramente musulmana, stava camminando lungo la riva
del mare. Indossava jeans attillati e camicetta aderente, mentre la testa, e
solo la testa, era coperta da un chador così puritanamente ermetico che non si
vedevano nemmeno gli occhi.
Oggi ormai esistono scuole di filosofia, antropologia e critica letteraria che dedicano ampio spazio all'analisi dei processi di ibridazione, comunicazione e trasformazione culturale.
Tale processo è continuo
soprattutto nelle regioni i cui confini di stato sono anche confini culturali
(p. es. la frontiera statunitense-messicana), ma anche nelle metropoli
gigantesche (San Paolo, New York, Singapore), dove si mescolano popolazioni
diversissime per cultura e razza. D'altronde quando oggi diciamo che il mondo è
diventato multietnico e multiculturale, non lo diciamo perché ci sono più
comunità o più culture di una volta, ma perché esse si esprimono con voce
sempre più alta, sempre più autonoma e decisa, pretendendo l'accettazione, il
riconoscimento e un posto alla tavola rotonda delle nazioni. La vera sfida del
nostro tempo - l'incontro con un nuovo Altro - sorge anche da un ampio contesto
storico. Gli ultimi cinquant'anni del sec. XX hanno visto i due terzi della
popolazione mondiale liberarsi dai vincoli del colonialismo e trasformarsi in
cittadini di stati almeno nominalmente indipendenti. Questi popoli hanno
gradualmente cominciato a rintracciare il proprio passato, i propri miti e
leggende, le radici, il senso della propria identità, e naturalmente l'orgoglio
che ne deriva. Cominciano a sentirsi se stessi, padroni e timonieri del proprio
destino, guardando con odio ogni altrui tentativo di trattarli da comparse, da
vittime e oggetti passivi della dominazione. Oggi il nostro pianeta, abitato
per secoli da un ristretto gruppo di liberi e da moltitudini di forzati, si sta
colmando di un numero sempre più alto di nazioni e società in cui aumenta il
senso della specificità del proprio valore e della propria rilevanza. Il
percorso di questo processo incontra sovente difficoltà immense, conflitti,
drammi e perdite.
Forse stiamo puntando verso un mondo talmente nuovo e
difforme che le esperienze della storia sin qui acquisite si riveleranno
insufficienti a comprenderlo e a muovercisi dentro. In ogni caso il mondo in
cui stiamo entrando è il Pianeta della Grande Opportunità: non si tratta di
un'opportunità incondizionata, bensì aperta a coloro che trattano seriamente i
propri compiti, dimostrando in tal modo che trattano seriamente anche se
stessi. E' un mondo che potenzialmente offre molto, ma molto esige, un mondo in
cui il tentativo di prendere la via più breve potrebbe condurre al nulla.
Vi incontreremo continuamente un nuovo Altro che pian piano
comincerà a emergere dal caos e dalla confusione della contemporaneità. E'
possibile che l'Altro nasca dalle due opposte correnti che danno forma alla
cultura del mondo contemporaneo: quella che vuole globalizzare la nostra realtà
e quella che vuole conservare le nostre diversità, le nostre differenze, la
nostra irripetibilità. E' possibile che sia loro embrione ed erede.
Con lui dovremmo cercare il dialogo e l'intesa. La mia
pluriennale esperienza vissuta tra Altri lontani, mi insegna che solo la
benevolenza nei confronti dell'altro essere umano costituisce il giusto
approccio per far vibrare dentro di lui la corda dell'umanità.
Chi sarà il nuovo Altro? Come sarà il nostro incontro? Che cosa ci diremo? E in quale lingua? Saremo capaci di ascoltarci? Di comprenderci?
Vorremo entrambi fare riferimento a ciò che - come dice Conrad - "fa appello alla nostra capacità di esperimentare lo stupore e la meraviglia, alla sensibilità per il mistero che circonda la nostra vita, al nostro sentimento della pietà, della bellezza e del dolore, al legame nascosto con il mondo intero; fa appello alla convinzione sottile ma invincibile che la solidarietà accomuna le solitudini degli innumerevoli cuori umani; fa appello a quella comunanza di sogni, gioie, preoccupazioni, aspirazioni, illusioni, speranze, paure, che lega un essere umano all'altro essere umano, che unisce l'umanità tutta: i morti ai vivi, e i vivi a coloro che non sono ancora nati"? >>
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