Avevo 9 anni quando il giudice Giovanni Falcone saltò in aria insieme a sua moglie Francesca Sorvillo e a Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
E stavo quasi per compierne 10, quando subirono la stessa indegna fine Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Ad 11/12 anni recitai insieme ad alcuni miei compagni della scuola media "La cantata per la festa dei bambini morti per mafia" di Luciano Violante, testo denso, commovente e certamente retorico, ma che ricordo ancora a memoria, specie per quella reiterata invocazione che dà il titolo al post.
E poi ci sono stati i cartelloni sulla legalità, le partecipazioni immancabili il 23 maggio sotto l'albero Falcone con la scuola e poi con genitori ed amici, e i cortei, i concerti, i film, capaci di modellare anche un'estetica dell'antimafia come segno di appartenenza ad una generazione che non avrebbe mai potuto ignorare gli immensi sacrifici delle tante oneste e dei tanti onesti che hanno cercato di combattere la piovra mafiosa, fino al punto di perdere la vita.
Ho vissuto la stagione di Addiopizzo e di Libera, ho cercato di sostenere Rita Borsellino in corsa per le regionali, distribuendo volantini al Capo e vedendo sotto i miei occhi compiersi l'orrore dei voti di scambio tra concorrenti dell'altra fazione politica (risultata vincente).
E poi una quindicina di anni fa c'è stato il momento di partecipazione più energico della mia vita, quando insieme ad altre/i giovani palermitane/i creammo un movimento apartitico, Muovi Palermo, simboleggiato da un millepiedi, che aveva l'ardita ambizione di interpretare le celebri parole di Berlinguer: « Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c'è scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia.», promuovendo tante attività in ambito civico.
Tra queste, si fece portavoce dell'ammirevole progetto di un mio caro amico architetto, Danilo Maniscalco, "frammenti di memoria condivisa" , che sono onorata di aver visto realizzare, partecipando ad entrambe le inaugurazioni dei mosaici che si trovano al Tribunale e all'Università di Palermo.
Il progetto di Danilo prevedeva, oltre ai grandi mosaici con le foto di tutti i caduti ( da Joe Petrosino a Padre Puglisi), anche una cinquantina di installazioni più piccole. Queste dovevano essere collocate nelle scuole più vicine ai luoghi originari degli omicidi compiuti per mano mafiosa, ed avrebbero raffigurato la foto della vittima, corredata di una biografia della stessa ad opera di giornalisti e scrittori palermitani.
L'obiettivo del progetto non era solo quello di celebrare i caduti, anche meno "noti", della mafia nel territorio locale, ma soprattutto quello di sfidare l'ignoranza che persisteva e certamente persiste, specialmente nelle giovani generazioni, intorno alla più recente storia palermitana.
Proprio perché senza memoria non può esserci futuro, volevamo cercare di riaccendere il bisogno di approfondire quanto accaduto nel secolo scorso ed i cui effetti si misurano visibilmente ancora oggi, malgrado l'aggressività del sistema mafioso parrebbe essersi attenuato, assumendo camaleonticamente altre forme.
Negli stessi anni di Muovi Palermo, avevo ideato e cercato di dar vita ad un altro progetto, che mi è dispiaciuto più di ogni altra cosa abbandonare, su Le periferie palermitane.
Guidata dalla frase di Albert Camus che "la nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo", tentai nel mio piccolo di unire le mie pressanti- quanto a tratti pericolose- aspirazioni platoniche alla Verità, alla Bellezza e alla Giustizia in un ambizioso progetto fenomenologico intorno alla complessa realtà delle periferie palermitane.
Non smetterò mai di custodire ricordi sublimi riguardo al tempo trascorso con le amiche ed amici coinvolti in quelle indagini abbozzate e sempre troppo inconcludenti, ma che ci hanno concesso di confrontarci, direttamente sul campo, intorno ad argomenti che sono felice di aver dibattuto allora e talvolta torno a dibattere ancora oggi in classe con le mie allieve ed allievi.
Le ragioni del progetto erano infatti composite e tra queste c'era sicuramente quella di chiarire meglio le influenze del milieu sulla coscienza, ma sempre senza dimenticare di trovarsi ad ogni istante al centro di una relazione, in cui non c'è un soggetto puro che osserva con distacco un oggetto impuro per ragionare intorno alle sue "sporcizie". Semmai c'è sempre un incontro che scatena riflessioni precarie e, svelando l'inaggirabile prospettivismo che riguarda ogni ricerca, traccia al tempo stesso delle traiettorie uniche perché sorte in quel momento e con quelle precise intenzioni, che mai più saranno replicabili e mai autorizzeranno la chiusura dell'indagine in un comodo cliché.
La mia città mi sembrò allora un cantiere inesauribile di seducenti impalcature teoretiche da una parte e il contraddittorio scenario di radicali azioni socio-politiche dall'altra parte (non meno faticosa da gestire della prima).
Il collasso delle mie energie per la necessaria clausura per la stesura rocambolesca della tesi di dottorato e gli sviluppi sentimentali prodromici alla famiglia che, dopo i miei trent'anni, è venuta al mondo, hanno determinato che tutto quell'attivismo naufragasse.
Ma questa mia lunghissima fase decennale di ritiro dalla scena palermitana (prrrr) non è stato un letargo.
Non essere in prima linea, e nemmeno in seconda o in terza, non vuol dire aver scelto di rinunciare alla lotta.
Il mio mestiere di educatrice dentro e fuori casa mi impone, in ogni caso, di fare costantemente i conti con la difficile trasmissione di un tipo di sapere che si impara attraverso l'esempio di una vita onesta, certo, ma anche attraverso la storia, raccontata da testimoni, libri e film che possano ricostruire il percorso di violenza, dolore, ricatti, intimidazioni, sopraffazioni e stragi che abbiamo alle spalle.
Solamente non restando indifferenti e prendendo coscienza, invece, di cosa ci precede, ogni palermitana ed ogni palermitano di domani potranno impegnarsi per rimanere vigili ed attente/i alle molteplici forme mediante cui si manifesta l'aggrovigliato fenomeno mafioso.
Locandina del film "Il giudice e il Boss" |
Così, ci sono storie purtroppo poco conosciute che vanno senz'altro diffuse, proprio perché rappresentino anche modelli da tenere a mente per restare dalla parte desta, che non cede ai compromessi. Una di queste è quella intorno al giudice istruttore Cesare Terranova ed al suo infaticabile poliziotto Lenin Mancuso, storia che il bravissimo Pasquale Scimeca racconta nel pregevole film "Il giudice e il Boss", che ho avuto il piacere di vedere insieme ai miei allievi venerdì scorso.
Se non avessi avuto un malditesta atroce, avrei domandato al disponibile regista presente in sala per un acceso, interessante dibattito dopo la proiezione, chi fosse il personaggio interpretato da Sergio Vespertino, ambiguo intermediario tra Luciano Liggio e la parte "sana" dello Stato, responsabile di vergognosi depistaggi che hanno condotto al martirio di Terranova, Mancuso e tantissimi altri dopo di loro.
Troppo fitti sono ancora i misteri sulle vicende mafiose, che non sono un semplice sottofondo della storia italiana, ma un loro fondamentale capitolo che andrebbe studiato con passione ed impegno incessanti, e che invece troppo spesso tendiamo a dimenticare.
L'ho ripreso in mano ieri ed appena avrò terminato di rileggerlo, vi preannuncio che scriverò un nuovo post, anche più pedante di questo.
Concludo, copiando una lunghissima mail del gennaio 2011, inviata alla professoressa Alessandra Dino per convincerla ad incontrarci per parlarle del progetto Frammenti di memoria sopra descritto. Ecco a voi:
Riflessioni sul senso di una memoria condivisa.
In assenza di rapsodi che cantino le gesta di antichi eroi, la memoria di chi ha lottato per degli ideali al punto di morirne, oggi viene condensata necessariamente in testi di vario genere, talvolta in spettacoli o alcune iniziative che cerchino di trarre fuori dall'ignoranza giovani e meno giovani, esaltando, con necessaria ed abbondante retorica, la purezza nascosta nel bel "modello". Lodare questo, in fondo, appare così un argine convincente alla dimenticanza che graverebbe irrimediabilmente sulla coscienza dei futuri "cittadini".
All'odioso obbligo morale del sapere rendere conto di quel che è stato, si può opporre innanzitutto la celebre frase di Brecht - come ricordava il professore Lupo e a cui, personalmente, ho pensato decine di volte nella mia vita, scrivendolo l'anno scorso persino sull'albero Falcone!- "Sventurata la terra che ha bisogno di eroi", frase che potrei dire rinvia implicitamente ad un senso di responsabilità del singolo, semplice cittadino, il quale, se onesto e rispettoso dei doveri comunitari, rimane l'unica garanzia perché la sventura della terra possa venire esorcizzata per sempre (o, meglio, il più a lungo possibile).
Se penso poi alla frase di Russell: "non vorrei mai morire per le mie idee perché potrebbero essere sbagliate", sembra che il margine per tentare un'impresa come quella che le abbiamo prospettato stamattina, si assottigli sempre di più. Non solo rischiamo di spogliare la commemorazione del suo senso specifico, ma diventa persino controproducente, insomma, affidarsi a qualsiasi elogio dei caduti, dal momento che urge, semmai, rivendicare la mancanza del bisogno di eroi.
Eppure, rinunciare all'aspirazione ad un tessuto di memoria condiviso, cominciando ad accettare che del ricordo non possano darsi che piccoli, debolissimi frammenti, oltre ad avere svelato quanto sia importante che, per valere qualcosa, la memoria debba innanzitutto non essere imposta dall'alto, forse ha accresciuto la nostra "sapienza", ma ci ha reso veramente più "saggi"?
Se la conoscenza della storia mantiene un potere salvifico, quest'ultimo forse non sarà liberare gli uomini dal peso dei loro errori, ma semmai indurli a ragionare ed acquisire consapevolezza su quali strade virtuose possano renderli migliori domani. Ci volgiamo indietro, si dice, per apprendere dalle esperienze passate ciò che non dovremmo ripetere. Eppure la storia è sempre meno magistra vitae, come dimostra il fatto che tanta resipiscenza spesso non sembra realizzarsi nella coscienza nemmeno di persone dotate di grande sensibilità e talento.
Cosa vuol dire, dunque, memoria? Come sarebbe giusto pensare al contemporaneo, se il presente sembra l'unica dimensione in cui rifugiarsi, perché a molti miei coetanei lontanissime appaiono le possibilità di diventare adulti e responsabili, così come spaventosamente estranei vengono avvertiti da molti quei mondi di ieri che non vantavano il progresso tecnologico che plasma la nostra società contemporanea?
L'impressione è che il pensiero si sia fatto corto e la società "liquida", come l'amore ed ogni forte passione che connota l'essere umano...
Già, tutto ciò è noto e mi annoio da sola nel rammentarlo a Lei, esperta sociologa, che certamente, per altro ha molto di più da fare, mi perdoni.
Ma se il tempo in cui sembra che siamo compressi ha le sembianze di un presente che non funge affatto da piattaforma dinamica in cui vecchio e nuovo si incontrano per scoprire quanto non siano affatto contrapposti, ma assomiglia, al contrario, ad una molle atmosfera che assume i caratteri della falsa eternità, come si può sperare che il singolo potrà rinunciare alle grandi narrazioni di ieri ed accontentarsi dei suoi frammenti "individuali" per avvicinarsi con passione alla verità, che, pure, rimane sempre indisponibile?
Laddove non ci sono grandi domande, laddove non si registrano i salti bruschi della ragione che si avventa in quel fitto terreno chiamato conoscenza, basta accontentarsi di consumare ciò che basterà per la giornata e non sognare più dello stretto necessario, frantumando di minuto in minuto la parola "comunità".
Del resto, proprio perché la vita non si presta "naturalmente" a nessun pensiero attardante che ne ricerchi con furia le origini, oggi le difficoltà a reagire all'oblio delle dinamiche storico-socio-culturali che, volenti o nolenti, hanno determinato buona parte di ciò che siamo adesso, parrebbero insormontabili.
Ma io, dopo anni di depressione e tante letture e ipotesi di reazione filosofico-artistica a queste analisi apocalittiche, penso che sia l'ora di pensare diversamente. Non credo più nella irredimibilità del genere umano, non voglio più crederlo da diverso tempo. L'uomo resta sempre dotato di linguaggio e sempre, perciò, capace di ricordare. Non a tutti è data la possibilità di intraprendere, però, degli studi tali da accostarsi con slancio ai "reperti" di ieri, ma tutti possono incontrare nella loro strada lo stimolo giusto per aprire gli occhi e tentare di rispondere all'angosciosa domanda: "perchè sono qui?" (cui seguirebbero, nel caso palermitano, " Come mai molti fuggono da una città bella come questa? Anch'io dovrò andare via? In effetti non si vive tanto bene..Perchè, ad esempio, non funzionano i servizi pubblici? Come mai l'emergenza rifiuti e quella abitativa tornano di continuo nelle pagine di cronaca palermitana? Cosa c'è dietro?"..e così via) .
La scommessa del progetto è che in fondo già provare ad interrogarsi sul paesaggio palermitano potrebbe essere un modo per imparare sempre prima rispetto a quanto non sia accaduto drammaticamente finora, che l'individuo senza comunità non è neppure più "individuabile", e non nel senso, naturalmente, di "intercettabile", ma semmai di disponibile alla chiamata della storia, di cui fa parte, ne sia o meno consapevole. Forse ciò su cui dovremmo riflettere è proprio il senso della "chiamata" a lasciarsi coinvolgere nelle micro e macrostorie del proprio tempo, in nome della vita stessa, divina o meno che essa sia, e non di "appelli" fatti in nome di astratte entità, non interiorizzate a sufficienza.
(....) Perciò, se non "condivisa", la nostra aspirazione è che la memoria rimanga "da condividere" ma non per potercela lasciare definitivamente alle spalle, il che risulta impossibile. Ciò che sarebbe bello riuscissimo a creare è la celebrazione non solo dell'umanità di quelle persone, ma del senso stesso della storia, che se non è intesa come permanente operazione rammemorante, che non regala a nessuno la soddisfazione di avere chiuso i conti per sempre con essa, allora ha un significato pari a quello di una lista della spesa, da stracciare appena usciti dal supermercato.
Se vorrà ne riparleremo, abbiamo tante idee, ma tutto sta nel trovare la giusta misura.
Da aspirante "fenomenologa del rifiuto", mi piace insistere sugli scarti, le periferie e tutti quei residui di umanità o di "faccende umane", che non vengono inglobati in alcuna indagine, ma saranno origine di successive questioni e progetti, forse, o solo di mie personali fantasie, non importa. Può darsi che questo sia uno dei tanti sentieri che non saranno percorsi adesso, per immaturità dei tempi, e non c'è da farne un dramma. Tutto sommato, restiamo vivi soltanto ricercando, tentando perciò di seguire tracce credute "buone" da una parte, e sforzandoci di ridurre i depistaggi che è arduo riconoscere immediatamente nella loro entità, dall'altra parte.
"Quanto manca alla vetta?" -"Tu sali e non pensarci!", scriveva Nietzsche. Beato chi non si stanca!
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A stancarvi di certo adesso siete voi, e nemmeno beati dopo questa interminabile lettura!
Ad maiora!
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