LE PAROLE A VENIRE

 


Andiamo a cercare insieme
Le parole per pensare
Sergio Endrigo

Vicino all'origine del declino, possiamo riscoprire alcune tendenze sorte decenni fa. 

Sono atmosfere, impalpabili maniere di cominciare a stare al mondo che non si sa specificare bene da cosa traggano linfa vitale, ma una volta che hanno inizio, difficilmente si frenano da sole.  

Etichettarle non è semplice, ma voglio provarci lo stesso.

Stamattina, in mezzo ad antichissime carte (parliamo del 2008) ho trovato un discorso, banale ed insieme decisamente retorico e catastrofista, sui limiti del linguaggio e la conseguente perdita di qualunque fiducia nella possibilità di cambiare il mondo con le parole.

Spero possiate perdonarmi se riporterò qui quel vecchio scritto -per vostra fortuna, brevissimo!-  per discutere di quella che considero forse la tara numero uno della nostra società occidentale:

LA SFIDUCIA NELLE PAROLE.

Ecco a voi le mie invettive di più di quindici anni fa:

"Sapere, potere, incidere il reale. Le parole possono essere vettore di cambiamento?

 No. La parola è impazzita. Rimbalza come una pallina ovunque, assassinando in pochi istanti il suo più nobile potere che è il dire il vero. 

Guardiamoci! Comunichiamo miliardi di vocali e consonanti al giorno senza posa, senza stanchezza, senza preoccuparci di circoscrivere ambiti in cui queste possano davvero significare qualcosa. 

La parola ha disperso il suo senso perché è ovunque, perché è contemporaneamente ovunque.

E se la società ha saputo creare questo mostro, non c’è più possibilità di redenzione per nessuno. 

Non resta che ripiegarsi nel privato e cercare di formulare parole circoncise, efficaci, che sappiano spiegare di volta in volta a chi abbiamo al nostro fianco che ciò che diciamo descrive la realtà del nostro sentire, la furia dei nostri pensieri, il nostro sdegno, la nostra preoccupazione. E basta. 

Non c’è altro al di là della coppia, della famiglia, di qualche piccola, rapida conversazione con amici con cui cercare di confrontarsi alla luce degli eventi recuperati tra i tanti nel nostro periodo storico che frantuma la storia, divora il corso delle vicende perché si illude di dominarlo con un clic.

La tecnologia ha un grandioso potere. Ma io non sono fiduciosa. 

Mi sento minoranza totalmente ferita, sanguinante, che non potrà che osservare continuamente il compiersi dell’assoluta demenza intorno. E tutto ciò crederò anch’io, lo credo già, potrò contrastarlo solo sfidando con l’amore la decadenza. Per questo mi rivolgo alla letteratura, per questo ancora invoco la bellezza, come argine illusorio a tutto ciò che ci sembra una forza oscura e sinistra- siamo noi, solo noi!- ci stia portando via.

 Il bersaglio contro cui lottare è troppo esteso, non si può più individuare con una nettezza assoluta perché ha perduto la sua identità, introiettandosi nella nostra.

Se non siamo abbastanza bravi da discernere, se non ci facciamo abbastanza capaci di giudicare con rispetto ma anche onesta crudeltà il nostro tempo, siamo destinati a scivolare in una limacciosa catena di speranze liquide che lo studio possa salvarci illuminando il presente, che nel frattempo ci avrà già preceduto."

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Beh, che dire. Credo ancora in queste considerazioni? Sì e no.

L'angoscia legata alla fragilità della lingua è antichissima. Il pericolo insito nel predominio di una sofistica degenerata in eristica, che non ha alcun interesse per la verità del discorso,  era stato uno dei pungoli fondamentali della ricerca filosofica di Platone, per esempio. 

Ancorare il discorso alla verità, sentire il bisogno di esprimersi per avvicinarsi quanto più possibile a ciò che è vero e non mirare affatto a ciò che conviene asserire per blandire la massa è, dopo tutto, la missione della filosofia.

Ma i giochi linguistici umani sono infinitamente più complessi. E quello filosofico è uno dei tanti, che non può oscurare il desiderio di esprimersi -anche per ingannare- che può riguardare tante e tanti altri esseri umani.

Essere democratici significa soprattutto sforzarsi di annientare ogni residuo di aristocraticismo- o puzza sotto il naso che dir si voglia- che rimane in chi si scandalizza nel vedere naufragare l'impegno per una lingua bella, oltre che interessata a dire il vero, per dovere accettare l'invasione di neologismi e forme sintattiche poco poetiche ed eufoniche. 

La lingua vivrà comunque, combinando insieme volgarità e arcaismi, intenzioni di avvicinarsi all'Universale e desideri manipolatori. 

A nessuno spetterà lo scettro del migliore oratore, ma a tutti potrà essere consentito di dare voce a quanto sente urgente condividere. 

Tanto vale esprimersi, perciò, sentendosi a posto con la propria coscienza.

Ne consegue che esprimersi bene dovrebbe essere obbligatorio per tutti coloro che hanno avuto il privilegio di studiare. 

E senza dimenticare di rimettere il vocabolario continuamente al vaglio critico, come suggerisce Carofiglio nel bel libro La nuova manomissione delle parole, perché gran parte del repertorio linguistico su cui si fonda la nostra democrazia sta davvero evaporando, manomesso per diverse ragioni, nessuna delle quali basterà a spiegare a chi verrà domani come orientarsi in un deserto di emozioni e visioni politiche.

Quando si sta scivolando verso il basso, insomma, è sempre possibile fare resistenza, rendersi più pesanti, interrompere il precipizio e risalire la china per tornare a vedere di nuovo l'insieme diversamente. I correttivi alla decadenza si possono cercare, senza subire più insulsi condizionamenti demagogici che vogliono spingerci verso la fine, impedendoci di vedere che esistono altre strade.

Per quanto riguarda la difficoltà nell'individuare il bersaglio pubblico delle invettive, probabilmente la confusione è ancora tanta, ma meno di allora.

Diciamo che già più di dieci anni prima, nel 1997, gli Afterhours avevano espresso la sensazione di impotenza, di condanna alla paralisi, non avendo un obiettivo chiaro contro cui scagliare la propria rabbia per tutte le ingiustizie che non possono essere accettate: 

Non so chi colpire,  perciò non posso agire / Sei fratello del controllo, sei fratello del controllo, sei fratello del controllo



Il controllo è sempre più capillare, ma chi dobbiamo colpire, secondo me, oggi è chiarissimo.

E' questa forma di capitalismo che ci governa e ci deforma, procurando oppressione e diseguaglianza a dismisura.

Il nostro potere è sempre quello di dire no, opponendoci al pensiero unico, alle sue tentazioni di censura e omologazione, raccontando una molteplicità di alternative che ancora non sono state realizzate, ma sono possibili.

Purché vengano discusse, descritte, immaginate, cantate in discorsi che possano trovare destinatari interessati a scrivere una nuova storia.

Restituire fiducia alle parole, insomma, si può, anzi, si deve. 

Senza di esse, non c'è alcuna democrazia possibile, ma solo una moltitudine di monologhi che non crea alcun universo simbolico comune, prestando il fianco a richiami distruttivi e bellicosi.

Torniamo a parlarci, coraggio, ascoltando prima di tutto cos'ha da dirci chi abbiamo accanto.

"Chissà com'è il mondo visto da te", canta Brunori Sas. 

Prova a raccontarmelo un po'questo mondo, magari scopro che è più bello di quello che vedo io!


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