ANIMA BELLA E PATETICA (FORSE)

 

La civetta di Minerva. Retro di un tetradramma d'argento in uso ad Atene nel 480-420 circa a. C.* 


Malgrado sia venerdì e, tornata dall'ultimo ricevimento, possa ritenere praticamente conclusa la mia pesantissima settimana, non riesco a percepire molta gioia oggi.

Avverto, dunque, le lettrici e i lettori che sono in questo momento allegri, di interrompere la lettura di questo che sarà UN POST BREVE, MA ALTAMENTE PARANOICO, SULLE DISILLUSIONI.

Nelle ultime settimane, in ben due quinte del liceo scientifico in cui sto facendo una supplenza, mi sono ritrovata a spiegare Hegel.

Contenendo la voglia di sputargli addosso (Carla Lonzi docet), sono tornata a stupirmi non solamente della sua impressionante fiducia nella Ragione che aspira a riconoscersi reale, ritrovando razionale la realtà stessa, ma anche della straordinaria potenza del "travaglio del negativo", il cuore del pensiero hegeliano, quel conflitto motore di tutti i pensieri e di ogni sviluppo degli eventi che è il momento negativo, nonché vitale e decisivo, della dialettica. 

Ed è noto - o forse no- come nel suo arduo capolavoro, la Fenomenologia dello spirito, la coscienza sia infelice finché non si scopre essa stessa realtà, ma questo percorso di progressiva consapevolezza sia pieno di tappe turbolente, che mettono a repentaglio ogni stentata certezza dell'esistenza/autocoscienza, mossa da un appetito di determinarsi nell'implacabile lotta per il riconoscimento con le altre autocoscienze e, al tempo stesso, spinta da un desiderio estremo di liberazione da ogni condizione di falsità e schiavitù. 

Ogni essere umano deve squarciare qualsiasi precaria sicurezza si trovi nel suo cammino esistenziale e conoscitivo, in un movimento perpetuo di inveramento delle premesse originarie di poter attingere all'infinito e cogliere anche quel noumeno che per Kant rimaneva inconoscibile. 

Ma tale processo si compie unicamente quando si sarà raggiunta la maturità per superare (e conservare, al tempo stesso, secondo il famigerato Aufhebung hegeliano) le risposte offerte tanto dalle antiche filosofie ellenistiche, quanto dalla stessa religione, sia ebraica che cristiana, perché incapaci di colmare quella scissione avvertita profondamente tra il soggetto e l'Assoluto.

Hegel, a questo punto, banalizzando un po' e senza volervi annoiare a dismisura, racconta del passaggio compiuto dalla coscienza nel trasformare l'intensa infelicità percepita nel vano tentativo di annullarsi in Dio (fino a mortificarsi, flagellarsi, abbassarsi oltre misura nelle pratiche ascetiche del Medioevo) in un patire di segno completamente opposto, che segna il suo battesimo di "Ragione" in senso pieno, finalmente in grado di comprendere il mondo per quello che è, senza infingimenti e senza ricorrere ad autorità extrasensoriali.

Lo sfondo storico a cui corrisponde questo nuovo, dirompente cammino autonomo è, naturalmente, il Rinascimento.  

Ed è qui, in quel momento della ragione attiva in cui le buone intenzioni di cambiare il mondo si scontrano aspramente con il destino, che viene fuori la critica di Hegel che ho per tanti anni voluto ignorare, ritenendolo conservatore, bigotto, disfattista ed incapace di provare alcuna empatia per tutti i fermenti rivoluzionari.

Nella figura intitolata "la virtù e il corso del mondo", infatti, Hegel parla di uno scontro inevitabile tra le buone intenzioni, i buoni propositi, gli aneliti di giustizia sociale e i progetti di solidarietà, tutti quei principi puri, onesti, sani e brillanti che ospita l'anima bella, e l'effettiva realtà, il Destino che non può che travolgere il soggetto benpensante, lasciando che si riveli per ciò che è: un fanatico ancora troppo poco razionale, che non ha ancora capito che il suo posto nel mondo non è vagheggiare la rivoluzione, ma rispettare le leggi del mondo.

L'anima bella, dunque, si guarda allo specchio e capisce quanto sia patetica per aver creduto che la Storia potesse mutare e che le sue battaglie per un pugnetto di giustizia fossero sempre indispensabili, necessarie, improrogabili.

Maturare, diventare pienamente razionali, significa invece superare quest'ingenuità. 

Ed è allora che nasce la disillusione, il disincanto, la spoliazione di ogni residuo di utopia, vecchia o nuova, che è albergata nel cuore, fanatico ma bello, del soggetto ancora acerbo.

Inghiottendo la consapevolezza che l'ingiustizia prevarrà sempre perché non ci saranno mai sforzi singoli capaci di domarla, e senza arrendersi ad uno stoicismo che, per Hegel, finisce con il proclamare una libertà interiore, scegliendo però di dare le spalle al mondo, l'individuo hegeliano dovrà vivere una quieta esistenza di mediazioni perenni, aderendo con soddisfazione al tessuto comunitario, svolgendo il suo dovere e traendo da quello tutto il suo appagamento.

 Avendo scoperto qual è il suo posto nel mondo, l'individuo per Hegel obbedirà con piacere a tutte le leggi/catene che gli saranno imposte da uno Stato etico, che, come una grande famiglia premurosa, saprà orientarlo verso la sua felicità.

Beh, inutile dire che io, invece, non sarò mai abbastanza razionale da accettare questa giustificazione della realtà senza provare profonda vergogna. 

Davanti al clima primaverile a febbraio, al fascismo che avanza esprimendosi con inquietanti manifestazioni di repressione violenta, agli orrori compiuti a Gaza, agli operai che muoiono per lavori che non li tutelano, alla libertà di dissentire sempre più compromessa, 

mi chiedo davvero come possiamo aver perduto fiducia in un movimento collettivo di protesta, che vada oltre l'illusorio collante dell'isteria urlata nei social.

Non esiste più un NOI (e nella rivendicazione di quel primato del NOI sull'io, che rischiava di venir meno proprio nel movimento di ascesa della borghesia, Hegel, così profondamente greco, sicuramente è stato illuminante!)

Ciascuno sprofonda nelle sue private angosce e non riesce  a far partecipare i più vicini nemmeno delle sue più profonde felicità.

Monadi sonnambule che avanzano verso il precipizio, questo forse siamo.

Come potremo salvarci?

Come potremo sfondare la parete dell'incomunicabilità e trovare un linguaggio capace di unirci davvero?

Non lo so.

Ma quando sono in classe e con le ragazze ed i ragazzi si dibatte, discute e i guizzi degli occhi tornano vividi e penetranti, torno a vagheggiare come possibile una piccolissima, minuscola strada di lento ed impercettibile, sia pur estremamente faticoso, miglioramento dell'umanità.

E in quella fugace vicinanza tra generazioni che si interrogano sul destino del mondo, assaporo una forma di felicità/ realizzazione di difficile spiegazione, sapendo bene, in ogni caso, che vivere questa condivisione è un privilegio raro, ma anche che, presto, purtroppo tornerà ad essere solo un indelebile, ricordo.

Comunque sia, è grazie al fatto di aver pensato a loro se alla fine, almeno in questo post, sono stata meno catastrofica del previsto.

Ad maiora!


*Nella celebre espressione che allude alla funzione giustificatrice della filosofia, Hegel utilizza il termine "nottola" che, in verità, ho scoperto essere un pipistrello!




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