Origini fenomenologiche

 Da un quadernetto recante data 31 maggio 2012

Copertina di un vecchio taccuino

Se esiste la possibilità di raccontare ciò che vedo, sento, penso e temo di me, del mondo, perché non tentarla?

Mi hanno insegnato che dietro tutto ciò che conta c'è un metodo. Il mio sarà quello "fenomenologico".

 Non perché sia infallibile o più capace di altri di pervenire alla verità che ognuno recita a modo proprio, qualora accettiamo che se ne dia una, nel senso di un ordine che sottrae al caos ogni potere, ad esempio, e non è il mio "caso", arresa da tempo all'imprevedibilità e all'insensatezza di tanti dolori e faccende dell'umanità. 

Ma potrebbe essere valido per provare a risalire a possibili origini, disoccultando dalle stratificazioni il dato esistente (e resistente alla critica) di questo mio curioso, anomalo esistere nel 2012, con scarse possibilità di arrivare a compiere 30 anni, per causa mia (suicidio escluso, intendo l'esito piuttosto "prevedibile" di una condotta di vita irresponsabile, che ha mancato dal suo nascere l'obiettivo della salute, come forma di autoconservazione) o di una non improbabile catastrofe naturale.

Si teme un terremoto. Si ha paura dello scioglimento dei ghiacciai o semplicemente del ritorno all'età delle pietre, successivo al crollo definitivo di questo agonizzante capitalismo che ha governato in modo scellerato il pianeta negli ultimi secoli, sempre sulle spalle dei più poveri.

Questo "si" è la chiacchiera (Gerede), la prima modalità deiettiva del Dasein, secondo Heidegger. Ed è impossibile sottrarsi alla sua invasività finché non si sceglie di avvicinarsi con determinazione e ferma costanza all'Essere, scoprendolo tempo di cui aver cura assidua nel restare permanentemente nei pressi di ciò che da un momento all'altro può sopraggiungere, ridisegnando una nuova radura dell'Esserci stesso.

 Giacché non c'è radura dove non c'è chi la possa abitare. 

Ed è anche, perciò, un po'casa sua questa vicinanza al Sein

Non è solo l'Essere che ci chiama. Dobbiamo avere orecchie pronte anche noi, assoggettando quel rumore inutile del mondo e sprofondando nella ricerca del tempo perduto per inaugurare un tempo migliore, quello del compimento, della grazia, del perdono per tutte le nostre sventure, della catarsi da ogni pesante dolore che occlude il fluire, facendo seccare il fiume con tutta la sorgente. 

Il mio metodo sarà perciò fenomenologico, nel senso che cercherò di svelare determinati "fenomeni", forse esperienze, forse accadimenti del tutto trascurabili, che, legati insieme, parlano di ciò che sono stata, del perché sono diventata ciò che sono e di cosa potrei diventare, proprio a partire dalla storia analizzata in questi fogli sempre in modo impreciso e precario, interpretando segni che non voglio rimuovere ma so bene non potranno contrastare la latenza necessaria, il non detto determinante, la valle dell'inconscio ingovernabile e che più del buon senso e della disposizione attenta alla virtù (fattori entrambi, questi, che ho perduto di vista del tutto negli ultimi anni) alla fine sanno spiegare il nostro daimon e perciò noi stessi.

Non stuzzicherò l'inferno che scava laddove non posso intravedere alcuna luce.

Cercherò di seguire solo le tracce semiscoperte, lasciando ad altri generi di ricerca il compito di far parlare il sommerso.



Qui discuterò di "Quello che fu" nella prima parte del taccuino, suddivisa nei seguenti capitoletti: 

Infanzia; Scuola; Amici; La percezione del corpo; Le nefaste esperienze amorose ed i pochi idilli; La passione per la giustizia ed il suo riflesso socio-politico; L'impero dei sogni ed il cinema; La ricerca della comunità; Il condizionato e l'incondizionato: Dio- La Storia- La Famiglia.


Quando avrò terminato di voltare le spalle al presente, mi sforzerò di procedere fenomenologicamente alla volta dei seguenti argomenti:

il senso del viaggio; la cultura umanistica chiede aiuto; il segno e l'impotenza (variazioni sulla mia tesi di laurea); le minoranze beate e l'inconsistenza di un piacere di massa; immagini di libertà al di là del dolore; la sensualità e il sesso: un grattacapo senza fine; l'eroe e la malinconia soppressa; Correre verso dove, verso chi?; La qualità del mio tempo; Gli animali feriti ed il canto; Sprofondare nel sonno in compagnia degli assenti ed in attesa di diventar fantasma anch'io.


Non escludo di concludere questo lavoro con comode liste riguardanti i miei gusti in fatto di citazioni, canzoni, cibi, registi, scrittori, angoli della città, colori, parole, sogni, eccetera eccetera...


QUELLO CHE FU. CAPITOLO I

INFANZIA



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Commento a caldo:

Oh mio Dio, che delirio di vanità! 

Lungi da me continuare nella trascrizione e dare in pasto i miei intimi ricordi autobiografici ad un "pubblico" che potenzialmente ignoro.

I social ci hanno abituato ad una naturalezza nel mostrarsi che naturale non è.

Da ormai più di quindici anni, siamo invasi costantemente da esibizioni di narcisismo, aggressività, superficialità, ignoranza, nonché sociopatia di chi ha problemi relazionali di varia natura e che nella vita reale probabilmente risultano insormontabili, ma che la virtualità per incanto dissolve.

Confortate e confortati dall'invisibilità e dalla rapidità con cui tutto, nel microcosmo di pixel e reels, può accadere, noi occidentali che abbiamo ceduto alla massificazione tecnologica, nemmeno ci domandiamo più chi siano davvero coloro che si raccontano.

Tutte e tutti siamo indaffarati a presentarci in un certo modo, ammiccando a quel sé virtuale che ha iniziato a piacerci forse di più di quello che guardiamo allo specchio e ritroviamo negli sguardi dei nostri familiari ed amici.

E così inautenticità, solitudine e necessaria vacuità arredano quella casa virtuale (il mio riferimento è a facebook, l'unico social che conosco) che, già più di dieci anni fa, una volta appellai provocatoriamente "Auschwitz dell'anima".

Eccessiva? Probabilmente sì.

La consapevolezza della progressiva estinzione della sobrietà e delle virtù più autentiche dell'umanità spesso mi inducono a banalizzare la questione (che è certamente più complessa) e a ritrovare nell'utilizzo esagerato (quando non esclusivo) della tecnologia, una delle cause fondamentali del nostro imbarbarimento.

In realtà, penso che raccontare di sé possa essere rivoluzionario, oltre che terapeutico.

 Ma i social non sono il luogo adatto e nemmeno un blog. 

Perciò, viva i diari segreti e le lettere cartacee, piene di cancellature e scritte rigorosamente a mano, per opporsi al deterioramento - comunque inevitabile- della facoltà grafica e cognitiva. 

La scrittura emancipa, consente di liberare un potenziale inespresso che talvolta è enorme. 

A tratti, continua a sembrarmi ancora oggi, malgrado gli abusi del passato, uno dei pochi "farmaci" (nel senso di "pharmakòn" che può facilmente diventare un veleno, nell'accezione greca)  che l'umanità ha creato, in grado di donare autentica libertà.

 L'importante è trovare la giusta dose e individuare anche i giusti destinatari.

Ad maiora!

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