LA RABBIA INNOCENTE



Che si rinunci all’ira, si rinneghi la vanità, si spezzino tutte le catene della schiavitù.

La sofferenza non affligge colui il quale è distaccato da parole e cose ed è libero dai beni.

Io lo definisco un buon auriga, colui il quale trattiene l’insorgere dell’ira come se governasse il carro impazzito. Gli altri reggono solo le redini.

Dhammapada The Way of Truth

Ciascun essere umano può dirsi che insegua una promessa di felicità. 

Pochi, però, sembrano fermarsi a domandarsi con radicale sincerità se le condizioni che hanno creato o in cui si sono ritrovati a vivere siano in grado di allontanare dalla realizzazione delle loro più intime potenzialità o, viceversa, sappiano incrementare la straordinaria capacità umana di splendere, aprendosi all’infinito.

E ciò probabilmente accade perché non tutti si chiedono cosa sia l’uomo (non uso donna, che tristezza, ndR 15.1.2024**) . 

Troppi, anzi, lo riducono a essere tecnologico, razionale (nel senso di calcolatore), bisognoso di calore (nel senso di propenso a costruire pesanti strutture infernali che lo emancipino dalla sua tendenza naturale al non darsi forme definite, come l’aria e l’acqua di cui si nutre per lo più) e di comprensione (nel senso di dispositivo violento che garantisce al più potente- per forza fisica, ricchezza, favella o scaltrezza - di sotterrare l’altro) e mai si chiedono se queste siano definizioni bastevoli a spiegare la complessa trama di possibilità, azioni, memorie e inconsci demoniaci che egli è sempre stato e sempre sarà.

Chi molla la presa su questa estenuante ricerca si confina, in fondo, ai margini della possibilità stessa della felicità, e si lascia andare a un’esistenza sbiadita, dominata dall’adeguamento sempre più fiacco ai gusti imperanti e alle polemiche un po’ stridule della massa, smarrendo la criticità, il coraggio e l’ironia necessarie per sopravvivere a quella valanga di stimoli contraddittori che emergono soprattutto nel nostro universo immateriale occidentale.

Perdersi è facile. 

Non possiamo non sostare, infatti, altrove che in posizioni relative, contingenti, soggette a mutamenti continui, frutto delle interazioni prodotte volta per volta con gli altri esseri umani intorno a noi- reali o anche solo immaginari-, con la Natura, con la Storia, con la riflessione provocata dalla conoscenza scientifica, umanistica e teologica della realtà e con le pulsioni più nascoste che certi accadimenti rimettono sulla scena, fino a farci scoprire, nostro malgrado, di essere poco più che mosche impazzite, il cui centro non è mai la volontà né la lucidità razionale. Se si aggiunge anche la casualità con cui spesso queste trasformazioni accadono e si succedono, sarà ancora una volta ben chiaro quanto il “carattere” di una persona non sia altro che la maschera che sceglie o viene indotto dal contesto a scegliere di indossare più frequentemente.

Niente di nuovo, ma ben lungi dall’essere una predisposizione naturale o il portato dei suoi geni, la Personalità è talmente vaga, ambigua e in continua mutazione, che solo i pazzi realmente pericolosi possono ascrivere alla loro vita una certa IDENTITA'.

La loro follia, sapeva bene Pirandello, è quella di non accettare le maschere e volerle, anzi, distruggere in cerca di una faccia unica e immutabile, che li renda riconoscibili a prescindere dai condizionamenti esterni.

 Ognuno perde un tempo infinito a tentare di legittimare le proprie perversioni, ma probabilmente gli assetati di purezza possono essere brevemente indicati come coloro che cercano una presunta staticità che li metta al riparo dal lavorìo della Storia, dalla corruzione della società e dalla decadenza biologica stessa; qualcosa per cui poter dire: “QUESTO, e solo questo, sono io! Tutto ciò che mi avete costretto a essere voi, non mi appartiene! E fino all’ultimo giorno che mi sarà concesso di vivere sulla terra, farò in modo che le sovrastrutture rimangano sotto scacco dell’infinita potenza della mia Persona. Lotterò per sempre contro tutto ciò che mi è estraneo, perché so benissimo CHI sono”.

Ma per quanto eroica possa apparire, tale impresa è destinata al fallimento perché fondata su premesse del tutto illusorie, sintetizzabili in queste poche battute:

1) la certezza di sapere CHI si è e che QUESTO qualcosa sia immodificabile;

2) la presunzione che quel to ti èn eìnai aristotelico («ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa ») sia coincidente con l’autocoscienza o da questa intuibile;

3) l’arroganza di essere la MISURA di se stessi, che non hanno da far altro che mostrare agli altri la qualità inossidabile ritrovata sotto volgari e del tutto accidentali strati determinati nell’esperienza, che mai sono stati e mai saranno capaci di modificarla.

Salvare se stessi finisce allora con il coincidere con il salvare quella parte sì preziosa da non tollerare nessuno scambio con l’altro. Non si dà a nessuno, nemmeno per amore.

Quello che si tenta disperatamente di portare avanti in questo modo, in poche parole, non è che una RIFONDAZIONE INDIVIDUALISTA, ossia una follia atroce e pericolosamente fallace nel non riconoscere come, per quanto nella storia umana ci sia stato e sempre ci sarà chi tenti di sperimentare e affermare il contrario, non esista alcun “io” che possa vivere lontano dalla comunità.

Siamo quel che siamo soltanto perché viviamo in un contesto relazionale e il caos che si crea dando la percezione dell’abisso è la condizione negativa fondamentale non solo perché si generi la famosa “stella danzante” nietzscheana, ma perché ciascuno faccia i conti severamente con i limiti della sua posizione e si affretti a cambiarla, qualora la si scopra ingiusta.

Man mano che si vive, tutto si confonde. Perdiamo pezzi fondamentali e ne aggiungiamo di indispensabili. Assomigliamo, in fondo, a mosaici con una ricchezza inaudita di sfumature e in continua, mirabile espansione, la cui figura finale non sarà mai data nemmeno a noi osservare e comprendere, forse solo a un Dio.

L’elogio della sostanza e delle virtù ha sollevato molte persone terrorizzate dal vuoto, prede del timore dell’inconsistenza, come una cura efficace per intuire il senso profondo dell’esistenza.

I “profondi”, gli amici delle idee come li chiamava Platone, che pur sempre figli della terra rimangono, così come tutti coloro che inseguono passioni artistiche fino al punto da lasciarsi interamente abitare da queste e venire costretti a mantenere un rapporto con il tempo e lo spazio assai particolare, rischiano di essere i più tenaci avversari della fluidità. 

E di resistere a ciò che Henry Miller ha indicato come il “grande desiderio incestuoso”:

“scorrere all’unisono col tempo, fondere la grande immagine dell’aldilà con quella dell’hic et nunc. Un desiderio fatuo, suicida, reso stitico dalle parole e paralizzato dal pensiero.”[1]

Anziché apprezzare la superficie increspata, le onde piccole, grandi, talvolta perfette, talaltra paurosissime, si convincono che la vita sia principalmente perlustrare il fondo, isolando la potenza stessa delle correnti che rendono ardua una sua presa netta e definitiva.

I tesori più indicibili per questi esseri umani assai intrisi di aneliti alla Perfezione, si nascondono lì dove non tutti riescono a guardare.

 Ma nessuno è mai stato tanto bravo da garantire che questi tesori siano sulla superficie o sotto questa.

L’apparenza, violentata dall’opinione che, dalle origini della filosofia greca, la vuole per lo più ingannatrice e troppo mortale, in fin dei conti condensa l’essenza stessa della vita umana.

 Ma riuscire a resistere allo scompiglio provocato dal continuo generarsi e corrompersi delle apparenze intorno a noi, è certamente difficile.

 Nessuno può però escludere di fare i conti con ciò che appare e di continuo si dissolve, né di comprendere come sia soltanto in quel darsi inaspettato e imprevedibile dell’apparenza che l’essere umano ha la possibilità di misurare i suoi limiti e mettersi duramente alla prova. 

Solo nel sacro istante in cui vacilla ogni convinzione ritenuta fino a quel momento incrollabile per far spazio a un evento che scombussola ogni piano, si intravede la fonte originaria del mistero che siamo. Solo nella rassegnazione all’incerto che continua a convivere con la speranza di una intensa pienezza configuriamo quel miscuglio di essere e nulla che è l’essere umano, riscrivendo ogni volta daccapo tutto ciò che sappiamo e crediamo di sapere intorno agli altri e a noi stessi.

Non stupirsi più delle apparenze, non lasciare all’apparenza la forza di mostrarsi e smarrirci finché non ci si decida per interpretare uno dei tanti possibili significati cui essa rinvia, equivale a morire, come ciechi sazi del solo Sole che continua a brillare per tutti coloro che non cedono al cinismo.

Ora, se ho premesso a questo articolo le parole del Buddha, non è perché voglia invitare a un’ accettazione quieta e passiva di tutti i drammi che si verificano nella nostra vita personale e in quella dell’intero pianeta. 

Avevo precedentemente parlato del bisogno di attivare un “giusto distacco” per cercare di avvicinarsi ai fenomeni delle periferie palermitane, ma so bene che di fronte a ingiustizie eclatanti è quasi impossibile restare sobri.

 Sostenuta la fallacia dell’isolamento e ribadita la necessità del confronto con “ciò che appare” come modalità indispensabile per comprendere sé stessi e gli altri, il problema rimane da una parte quello di arginare il pericolo che quelle apparenze si rivelino nauseanti inganni, e dall’altra quello di intercettare quanto potere effettivo sia concesso all’uomo per riconfigurare ciò che accade intorno a lui, spesso senza dargli alcun preavviso.

Un Occidente che aveva fatto del meticciato, dell’ospitalità, della solidarietà e della ricerca del bello la sua forza, diventando, invece, progressivamente aggressivo, imperialista e volgare, ha da interrogarsi molto a lungo sulla sua effettiva potenza.

Bisognerebbe allenarsi a cambiare punto di vista continuamente, scongiurando il pericolo di infondati dogmatismi volti a mantenere a tutti i costi lo status quo e che ignorano la necessità che si rispetti un equilibrio dinamico, cuore di ogni vicenda umana, anche nei rapporti internazionali e intercontinentali. Il pulsare furente della storia dovrebbe, cioè,  aiutare coloro i quali finora hanno avuto immense fortune, senza forse mai rendersi conto che tutto può essere sottratto da un momento all’altro, a prendere atto dei fallimenti del capitalismo.

 Non c’è mai alcuna giustificazione davanti al Male che si è perpetrato, mai ce ne sarà una possibile. 

Forse solo lo iato tra un’imperfezione delle vicende umane e una immutabile pienezza di quelle divine (fossero pure solo dei MODELLI platonici di perfezione, virtù, coraggio e giustizia) può fungere da molla per una profonda ricerca spirituale del proprio posto nel mondo che, pur non mettendo al riparo definitivamente dal naufragio, stimoli continuamente al superamento della situazione problematica, in nome di una prospettiva che apra e dissolva l’angoscia di essere abbandonati a un destino di miseria e sofferenza.

Il mio augurio è che una giusta, sacrosanta rabbia innocente pervada somali, eritrei, ghanesi, sudanesi, pakistani e tutti coloro che non restano imprigionati nelle periferie della terra perché continuino a fuggire dalla guerra e dalla sopraffazione e liberarsi dal giogo capitalista che noi stessi abbiamo costruito intorno alle loro vite, usurpando in un sol colpo la loro e la nostra dignità.

Educhiamoci a una decrescita meno infelice possibile, incoraggiando coloro che sono stati finora sempre gli ultimi, perché ai più “potenti” è convenuto che lo fossero, a diventare, finalmente, i primi nell’insegnarci che cosa resta dell’uomo.

 

Ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti
come una svista
come un'anomalia
come una distrazione
come un dovere [2]

 

  **Ripropongo un mio articolo pubblicato su Lavampa.it (rivista online ormai non più in funzione) nel lontano ottobre 2013, che avevo totalmente rimosso, ma è rispuntato adesso per caso in un tentativo di repulisti email. 

Che dire? Verbosissima sempre, forse addirittura più di oggi, ma in fondo coerente con la prospettiva anticapitalista (e anche di elogio degli ultimi di Faber, come scrivevo qui ieri!) che guida anche questo blog.



[1] H. Miller, Tropico del cancro. «“Amo tutto ciò che scorre”disse il grande Milton cieco dei nostri tempi (Joice). Pensavo a lui stamattina quando mi son destato con un grande urlo di gioia: pensavo ai fiumi e agli alberi e a tutto quel mondo notturno che egli esplora. Sì, dicevo a me stesso, anch’io amo tutto ciò che scorre: fiumi, fogne, lava, sperma, sangue, bile, parole, frasi. Amo il liquido amniotico quando sprizza dal suo sacco. Amo il rene coi suoi calcoli dolorosi e la renella e roba simile; amo l’orina che si versa calda e lo scolo che scorre all’infinito; amo le parole degli isterici e le frasi che si riversano come dissenteria e rispecchiano tutte le immagini morbose dell’animo; amo tutti i grandi fiumi come il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco, dove uomini pazzi come Moravagine galleggiano sul sogno e sulla leggenda in una scialuppa e affogano nella cieca bocca del fiume. Amo tutto ciò che scorre, anche il flusso mestruale che si porta via il seme fecondato. Amo gli scritti che scorrono, siano essi ieratici, esoterici, perversi, polimorfi, o unilaterali. Amo tutto ciò che scorre, principio dove non ‘è mai fine: la violenza dei profeti, l’oscenità che è estasi, la saggezza del fanatico, il prete con la sua gommosa litania, le parole sozze della puttana, lo sputo portato via nella fogna, il latte della mammella e l’amaro miele che si versa dall’utero, tutto ciò che è fluido, fuso, dissoluto e dissolvente, tutto il pus e il sudiciume che scorrendo si purifica, che perde il suo senso originario, che fa il grande circuito verso la morte e la dissoluzione. Il grande desiderio incestuoso è scorrere all’unisono col tempo, fondere la grande immagine dell’aldilà con quella dell’hic et nunc. Un desiderio fatuo, suicida, reso stitico dalle parole e paralizzato dal pensiero.»

[2] Fabrizio De Andrè, Smisurata preghiera.

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