GLORIA, manchi tu nell'aria...



Gloria, Tiziano, 1551-1554, Museo del Prado, Madrid

Mille anni al mondo, mille ancora
che bell’inganno sei, anima mia
e che grande questo tempo, che solitudine,
che bella compagnia.
Faber

 Una delle tesi che anima questo blog è che i grandi temi che hanno attraversato la nostra cultura occidentale, abbiano subito una modifica decisiva nella società tardo capitalista.

 Le antiche virtù etiche e dianoetiche di cui parlava Aristotele nell'Etica Nicomachea, ad esempiotrovano oggi una differente collocazione che non so se possa dirsi sempre virtuosa



Discutere del rapporto tra virtù e capitale è qualcosa che prima o poi penso dovrei decidermi a fare con l'accuratezza da studiosa che fui.

In maniera molto poco accademica e da blog, invece, qui vorrei  divagare brevemente sulla GLORIA, o, per meglio dire, su ciò che di lei resta, o rimane deformato, nel mondo occidentale tardo capitalista.

Non dico niente di nuovo per nessuno, lo so, iniziando con il dire che la gloria ai tempi del capitale è diventata una costante ricerca di fama e popolarità che nulla hanno a che fare con la gloria degli eroi omerici.

Diventare famosi, astri nascenti, satelliti orbitanti o semplici meteore che attraversano il cielo delle star, è l'obiettivo che si prefiggono moltissime ragazze e ragazzi occidentali. 


Che la nostra sia una società dello spettacolo non dovrebbe essere più un mistero per nessuna/o, così come persino vano risulta ricordare la frase attribuita, forse erroneamente, ad Andy Warhol, che recita: «in futuro tutti saranno famosi per 15 minuti» 

 (Cfr. qui andy warhol e la frase sui 15 minuti di celebrità)




Lasciamo che le parole ci insegnino qualcosa e recuperiamo la sensibilità indispensabile per fare in modo che a differenze semantiche corrispondano anche differenti concezioni del mondo.

Se analizziamo i termini gloria, celebrità, fama e notorietà, ci rendiamo subito conto che il primo ha una peculiarità tutta sua che lo distingue dagli altri tre in modo netto.

La gloria, infatti, è collegata alla luce.

La gloria è una fama grandissima che ambisce all'immortalità, non al denaro né ad un fugace prestigio sociale, quindi, tanto che per raggiungerla bisogna essere coraggiosi, disposti a sacrificare se stessi a qualunque costo.


Achille, prima di partire per Troia, sapeva che sarebbe morto giovane in cambio di gloria eterna e preferì comunque partire.

La gloria non è la ricerca di un consenso contemporaneo, si rivolge alla posterità, brama un riconoscimento senza compenso effettivo nell'hic et nunc, perché tende a scolpire in un altrove ideale e magnifico un'immagine di perfezione ed esempio morale, che dovrà servire alle future generazioni come una fiaccola di salvezza.

In questo implicito intento pedagogico che guida le imprese gloriose  potrebbe celarsi anche un importante richiamo alla responsabilità nel prendere in mano il proprio Destino, ma, anche senza volerci vedere dietro un'esortazione profonda esistenziale, la retorica delle imprese gloriose scandisce certamente un codice di comportamento, la cui narrazione si trasmetteva di generazione in generazione.

L'azione nobile se non cantata muore, ed è per questo che la gloria del gesto va di pari passo con la gloria del cantore che sa custodire e celebrare l'eroismo nei secoli dei secoli, collegando per sempre a quelle gesta un NOME che mai più verrà dimenticato.

Luce, coraggio, memoria imperitura del Nome, questi più o meno i tratti principali della gloria antica.

Ma oggi? Può esistere ancora la gloria oggi?

"Sventurata la terra che ha bisogno di eroi", certo, ma ancora più sventurata talvolta mi sembra quella che dimentica del tutto il senso di quell'eroismo e coltiva indifferenza per le sorti della propria comunità globale, condannandola alla deriva.

Mi sono imbattuta in questo brano estrapolato da un  libro che non ho ancora letto:

"Non stupisce che se la gloria era il valore delle società aristocratiche, la celebrità sia diventata il valore supremo delle società moderne: è individualista, si fonda sul gusto della maggioranza, nasce dai media, chiunque vi può aspirare, o meglio, ognuno la può pretendere, senza vincoli di nascita, censo, appartenenza e perfino talento.

 È un fenomeno legato alla riproducibilità tecnica e all’ampliarsi delle platee che decretano il riconoscimento, a mano a mano che esse si allargano a dismisura, la celebrità si diffonde a macchia d’olio, fino a diluirsi nella notorietà dell’anonimo."

Maria Pace Ottieri, Amore di gloria


Se un tempo la gloria veniva concessa solo a pochi membri illustri della società, capaci di distinguersi per virtù e azioni apprezzate dalla massa e destinate ad essere incarnate proprio nelle loro figure idealizzate e tramandate di generazione in generazione, potremmo dire che oggi la cassa di risonanza che attraversa i secoli si sia infranta.

A prevalere, al suo posto, ci sono piccoli megafoni che durano manciate di anni, quando va bene, segnalando al pubblico cantanti, sportivi, attori, registi, scienziati, scrittori e talvolta anche poeti*.

Tuttavia, essi riescono a guadagnarsi l'Olimpo delle celebrità solo molto raramente in modo stabile, men che mai perenne, perché soggetti a continue fluttuazioni di interesse del "pubblico", sovrastimolato da fitte proposte sempre variegate ed incline ad omaggiare le novità, che risultano più attraenti delle "vecchie glorie".

Questo discorso può comunque valere per quel tipo di celebrità ottenuta con sacrificio, ma non destinata a durare perché vittima della società capitalista, e non sua precisa espressione.

Esiste poi, infatti, una notorietà raggiunta senza aver compiuto alcuna mirabolante impresa e, tuttavia, largamente diffusa, sia pur in una forma assai diluita, a cui si riferisce il brano riportato sopra, e che dell'antica gloria non ha più niente.

Questa notorietà/popolarità non ha bisogno di riconoscersi in un codice comportamentale preciso, come valeva per gli eroi omerici, può essere rapidamente raggiunta da tutti (senza più nemmeno dover essere heroes for one day, come accadde ai vigili del fuoco americani l'11 settembre), mira ad un ampio pubblico (il popolo -virtuale-intero), ma, soprattutto, ha come unico interesse quello sponsorizzato dalla società capitalista: vendersi e arricchirsi a dismisura.

Sono i figli e le figlie della pubblicità e del marketing esasperato, le influencer e gli youtubers che dominano la rete e vengono osannati dalla massa intontita, finché non perdono all'improvviso lo scettro della visibilità, sprofondando nell'anonimato, se non nella damnatio memoriae. 

D'un tratto, dallo splendore raggiunto senza mai aver dato prova di alcun talento, virtù o specifica abilità- se non quella di abbindolare deboli menti confuse- la loro aura sfuma e non vengono più ricordate, puff, spariscono per sempre senza lasciare traccia.

La fama  (gr. phéme, dal verbo phemi «dico»: ma il termine è neutro – buona o cattiva fama – sia in gr. che in lat.), infatti, è una notizia di larga e rapida diffusione,  ma non necessariamente buona!

La vita di chi cerca la fama spesso è infame. 

Bisogna avere compassione e tolleranza anche per loro.

In conclusione, che aggiungere?

Può, insomma, esistere ancora oggi la GLORIA, qualcosa che perdura e resisterà per sempre nei secoli dei secoli, ammantato da un fascio di luce e speranza?

Se ci si tira fuori dalla lotta, credendo che il riconoscimento sia già avvenuto, si commette un errore gravissimo, imperdonabile, come sanno tutte le meteore del sistema che rigurgita senza posa star e starlette che non fanno in tempo a consolidare agli occhi del pubblico i loro talenti, presunti o reali, e finiscono ben presto nel dimenticatoio.

Ma la verità triste, quanto infallibile ed incontrovertibile della nostra società tardo capitalista e a cui forse dovremmo arrenderci una volta per tutte, temo sia che oggi, per quanti sforzi tu possa fare, per quanta bellezza ed intelligenza tu possa donare al mondo, nessuno ti cacherà mai.

Ai posteri l'ardua sentenza.


*
Questo post è stato pubblicato il giorno in cui si celebravano i venticinque anni dalla morte di Fabrizio De André.
Se c'è qualcuno che merita gloria eterna, per me è proprio Fabrizio De André.

Nell'Olimpo dei grandi cantanti e poeti della mia formazione, Faber è Zeus.

L'ascolto passivo- benché continuo- dell'infanzia si è trasformato negli anni più fertili in ascolto attivo e trasformativo, che ha inciso profondamente la mia anima ed il mio modo di guardare il mondo.
Condividendo il brano "Anime Salve", su facebook ieri ho scritto questo post, che mi va di condividere anche qui:



Lo so, era ieri il giorno della “celebrazione”, ma Faber va ascoltato tutti i giorni.
Nessuno più di lui ci ha insegnato che la pietà non deve mai rimanerci in tasca e davanti a tutti i disastri che nell’ultimo quarto di secolo abbiamo combinato e stiamo combinando, chissà che parole sublimi avrebbe trovato per non disgregare del tutto la nostra umanità e lasciarci vigilare sulle nostre imperfette condotte quotidiane e le nostre idee per cui va beh, si può anche morire, "ma di morte lenta".
Mi piace pensare che avrebbe odiato l’abusata parola “narrazione” anche più di quanto la detesti io, ma, frugando nella sua sconfinata ed inarrivabile sensibilità, avrebbe comunque trovato il modo per cantare il nostro tempo, “l’astio e il malcontento di chi è sotto vento”, le pieghe più oscure dell’esistenza nel nuovo Millennio, i suoi misteri più strabilianti e le strade da battere per preservare la capacità di stupirsene ancora.
Faber ha scoperto un alfabeto nuovo per parlare delle sofferenze e dei punti di vista di drogati, puttane, travestiti, zingari, alcolizzati, suicidi.. tutte le frange sociali che la maggioranza non aveva alcuna intenzione di integrare allora e preferisce ancora oggi tenere distante, perché non sia mai che possa venir confusa con i radical chic e le “persone perbene”.
Nessuna/o ha potuto colmare il vuoto che ha lasciato.
Oggi forse parlerebbe degli immigrati, dei palestinesi, ma anche di tutte e tutti quelli che vengono messi ai margini da questa società tardo capitalista che crea diseguaglianze estreme e profondissima sofferenza fisica e mentale.
Forse canterebbe anche dei precari del mondo della sanità e dell’istruzione, certamente scriverebbe dei riders, dei raccoglitori di pomodoro vittime del caporalato, delle lavoratrici e dei lavoratori amazon, degli operai tessili del Bangladesh e dei bambini congolesi che devono estrarre il cobalto per i nostri dannati smartphone.
Avrebbe cercato di tradurre in versi il suo disgusto per le ingiustizie che il nostro tempo miete alle spalle degli ultimi e che chi ha gli strumenti per opporsi accetta senza ribellarsi, e sarebbe riuscito a mantenere alta la capacità di scandalizzarsi e “procedere in direzione ostinata e contraria”.
La mia preghiera in gennaio è, perciò, molto semplice:
Faber caro, scendi dalle stelle e vienici a salvare!
Ma se proprio non puoi,
Tu che ci ascolti insegnaci un alfabeto che sia
differente da quello della nostra vigliaccheria

Commenti