Fraintendimenti pretestuosi

 

Felicità dopo il referendum del 2/3 giugno 1946


Leggere ed ascoltare mi rendo conto che siano diventate attività sempre più difficili per le donne e gli uomini del mio paese, almeno sui social.

Mi sono arresa da tempo che non tutti e non tutte abbiano gli stessi gusti, per carità, ma mi viene sempre più duro da digerire che anche a livello cognitivo non si possa proprio trovare una base minima da cui partire per ricomporre critiche del tutto ingiustificate.
E così capisco che non debba essere universale il riconoscersi nell'umorismo intelligente (così lo considero) di Paola Cortellesi, professionista che finalmente sta ottenendo il successo che ha conquistato con fatica (e per me merita indiscutibilmente).

Tuttavia, trovo francamente indegno che venga fatta a pezzi e giudicata mediocre, superficiale, banale, montata ed ignorante sulla base di pregiudizi che non vengono minimamente messi in discussione, nemmeno ora che, in notevole ritardo rispetto alle polemiche del tutto infondate che sono iniziate avvalendosi di pretestuosi stralci del suo discorso alla Luiss, il testo/video è stato pubblicato integralmente.

Soffermarsi su un sottoargomento del più ampio discorso di respiro pedagogico sull'emancipazione e sul bisogno di non accettare quell'invisibile violenza che ancora, malgrado la parità formale raggiunta, viene esercitata sulle donne perché donne, è un'operazione strumentale e deleteria per la comprensione del discorso stesso.

Paola Cortellesi non ha certo bisogno di essere difesa, ma occorre ricordare che il suo intervento è stato richiesto non certo per fare marketing (di cui non ha alcun bisogno).
E' stata - con sua stessa sorpresa- invitata per l’inaugurazione dell’anno accademico dal presidente della Luiss, che, riferisce la Cortellesi, desiderava che raccontasse alle studentesse e agli studenti le sue storie perché fungessero da elementi di riflessione.
Distorcere già la limpida, chiara ammissione sulla finalità del suo discorso, in cui viene sottolineata, per altro, fin dall'inizio la sensazione di inadeguatezza dell'oratrice ( manifestando, pertanto, un'umiltà che è sempre più raro vedere in giro!), denota un deficit nella lettura globale di un testo che è preoccupante, specie se a diffondere interpretazioni deformate e stroncature leziose sono persone che appartengono, addirittura, al mondo accademico.
Trovatemi esattamente dove, nel discorso della Cortellesi, si evince che il suo film deve essere visto assolutamente, che le favole vadano cambiate perché sessiste e che, invece, il suo film è molto meglio di Biancaneve e Cenerentola.
Qualcuno (e purtroppo anche qualcuna) arriva a sostenere, divertito ed irritato, che abbia trovato il modo per sfondare tirando fuori questo nuovo irritante leitmotiv: "er patriarcato".
Il punto, per me, è però proprio questo:
Biancaneve e Cenerentola sono assolutamente figlie di una cultura patriarcale che solo negli ultimi decenni inizia a scricchiolare, ed in Italia precisamente da quando sono cominciate le prime conquiste di diritti, a partire dal diritto di voto esercitato in favore della Repubblica nel 1946 dall'oppressa Delia, che non ha bisogno di aspettare un principe azzurro, ma si salva, dice la Cortellesi, "con la consapevolezza e un ritrovato rispetto di se stessa".
Per quel che vale, sono delusa dalla vostra stridula rabbia, disgustata dalla vostra degradante invidia per una persona che ha trovato un modo per parlare di emancipazione femminile che rimarrà nella storia della cinematografia, vi piaccia o meno.
Non ve la meritate proprio Paola Cortellesi.
Non ve lo meritate tutto il lavoro che ha fatto per ciascuna di noi, in modo che non dimenticassimo mai più da dove siamo partite e come tutto possa in un secondo sprofondare nuovamente nella barbarie della subordinazione supinamente accettata.
Perché i diritti sono fragili e vanno custoditi come un tesoro prezioso più dell'aspettativa di un destino da principessa.
Paola Cortellesi non ha certo bisogno di essere difesa, ribadisco, ma le insinuazioni che ho letto sulla sua persona sono insopportabili anche per me.

"E il modo ancor m'offende"
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Ecco il discorso, per chi ancora non lo avesse ascoltato/letto:



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Per chi non lo avesse ancora letto, ecco qui il 
 



"Grazie professoressa Severino, grazie a tutti voi, buongiorno agli ospiti, buongiorno ai ragazzi. Mi chiamo Paola Cortellesi, sono un’attrice, da una ventina d’anni scrivo per la radio, il teatro e la tv. Da dieci anni scrivo film per il cinema e da poco ho esordito alla regia con C’è ancora domani, uno spericolato film d’epoca, in bianco e nero che, in soldoni, tratta di prevaricazione e violenza di genere. Una mattonata, sulla carta, come diremmo in gergo. Con questi presupposti, nessuno si sarebbe aspettato un ampio gradimento della pellicola, e invece, contro ogni pronostico, questo film ha avuto un successo travolgente, ha battuto molti record e al momento è stato visto nelle sale cinematografiche da più di 5 milioni di persone.
Io ho iniziato il mio lavoro come attrice quasi trent’anni fa, nel mio settore ho avuto molte soddisfazioni, ricevuto importanti riconoscimenti ma, ultimamente, intorno al clamore suscitato dal film, l’interesse nei miei confronti è cresciuto spropositatamente. Questo a volte genera cose anche spiacevoli, come gli adulatori - da cui bisogna sempre guardarsi - e una certa diffusa aggressività di alcuni nel tentativo di trarre vantaggio da questi miei quindici minuti di popolarità. Fenomeni passeggeri e di nessun conto rispetto a esperienze magnifiche e per me eterne come incontrare la commozione sincera delle persone in sala a fine proiezione e la condivisione spontanea di momenti importanti e a volte duri della loro vita.
Tra le cose belle e piacevoli, c’è la telefonata di Luigi Gubitosi (presidente della Luiss, ndr). Quando mi ha chiamata per propormi di essere qui oggi per l’inaugurazione dell’anno accademico di questa prestigiosa università, mi sono sentita fiera, onorata e... inadatta. Io che l’università l’ho lasciata a metà del percorso per andare a studiare teatro - quello l’ho studiato - che poi è diventato il mio lavoro, gli ho risposto che mi sentivo orgogliosa di parlare agli studenti ma che sarebbe forse stato meglio chiamare persone competenti in materia di legge, marketing, economia, perché le mie conoscenze non hanno molto a che vedere con i corsi di studio di questa università e che - le interpreti, le diriga o le scriva - le mie competenze si limitano a raccontare storie. E allora Luigi mi ha risposto: ‘E io questo chiedo, io questo voglio! Racconta il tema del tuo film, fai un racconto nel racconto. Le storie fanno bene, le storie fanno crescere, sono uno stimolo di riflessione’. Ha ragione, quindi eccomi qua.
Eccomi qua a cercare di capire insieme a voi perché questa storia di violenza e prevaricazione in bianco e nero ambientata nel passato abbia fatto breccia nel cuore di così tante persone.
Perché, perché è successa questa cosa?
In breve, vi dico la trama, per chi non avesse visto il film, immagino molti di voi (sarebbe davvero presuntuoso pensare che l’avete visto tutti). Delia - che io interpreto, quindi una signora della mia età - è la moglie di Ivano, madre di tre figli. Moglie, madre. Questi sono i ruoli che la definiscono, e questo le basta. Siamo nella seconda metà degli anni Quaranta e la nostra famiglia qualunque vive in una Roma divisa tra la spinta positiva della liberazione e le miserie della guerra da poco alle spalle.
Ivano, suo marito, è capo supremo e padrone della famiglia. Lavora per portare i pochi soldi a casa e non perde occasione di sottolinearlo, a volte con toni sprezzanti, altre direttamente con la cinghia. Ha rispetto solo per il suo anziano padre, il Sor Ottorino, un vecchio cattivo e dispotico di cui Delia è a tutti gli effetti la badante.
È primavera e la nostra Delia è in agitazione per l'imminente fidanzamento dell’amata primogenita, Marcella, con un ragazzo di buona famiglia, Giulio. Un buon matrimonio per la figlia è tutto ciò a cui Delia aspiri. Non chiede nient'altro Delia. Accetta la vita che le è toccata e, se tutto procedesse come stabilito, la nostra storia finirebbe qui. Se non ci fosse l’ostilità dei genitori di Giulio, se non ci fosse tutto quel fermento in città, se non avesse incontrato Nino, il suo primo amore, e se non avesse ricevuto una misteriosa lettera che le toglie il sonno e che le darà il coraggio di provare a pensare a un futuro migliore.
Ora, detta così, sembra una delle trame di tante fiabe per bambine, sempre un po’ sinistre a dire la verità... Voi ne conoscete qualcuna immagino, no? Cappuccetto Rosso, no? Forse queste sono dei tempi miei, ma immagino che Cenerentola, Biancaneve… queste le conoscerete. Comunque, per chi non le conoscesse… Cenerentola e Biancaneve narrano di giovani sprovvedute, dotate di rara bellezza e di un’ingenuità disarmante (ai limiti della patologia), che subiscono angherie di ogni genere da altre donne malvagie. Quindi la matrigna sfrutta Cenerentola, ragazza bravissima nelle faccende domestiche (che solitamente svolge cantando). E la matrigna tiene nascosta l’avvenenza della ragazza al principe. Ma grazie a una magia, a Cenerentola basta mostrarsi in tutto il suo splendore per un paio d’ore perché il principe se ne innamori perdutamente. La matrigna la tiene nascosta ma lui, scaltro, la ritrova e la riconosce… perché l’aveva vista? No: perché ha i piedi sproporzionatamente piccoli... Comunque, alla fine lui la salva e la sposa. Questa era la prima cattiva, la matrigna.

La regina di Biancaneve è ancora più canaglia perché lei è di fatto la mandante del tentato omicidio di Biancaneve. Perché lo fa? Perché lei vuole essere la più bella del reame. Quindi anche con l’aggravante dei futili motivi… Tentato omicidio perché il cacciatore, uomo coraggioso e di buon cuore, non ce la fa. Anche perché la ragazza è troppo bella. È bella. Fosse stata una cozza, al limite l’avrebbe squartata, ma è così bella… E poi è ingenua, perché proprio è ingenua come un cucciolo di labrador. E lui la lascia andare. Allora Biancaneve incontra i Sette Nani, presso i quali si adopera per un periodo come colf. Poi, nonostante le mille raccomandazioni, anche dei Sette Nani, Biancaneve si fida di una vecchia orrenda, con l’aspetto da strega e che infatti è la strega. Morde la mela avvelenata, muore. Risorge grazie a chi? Al principe. A un bacio del principe, che se ne innamora perdutamente perché? Perché è bella.
Quindi il principe la salva e la sposa.
Ecco, entrambe le ragazze, bellissime - per carità - ma un po’ stralunate, trovano la loro realizzazione nel matrimonio con il principe. Un estraneo. Un estraneo che sposano subito, senza pensarci, senza nemmeno esserci uscite una volta a cena.

Tornando alla trama del mio film, dicevo che la vita della povera Delia è talmente ingiusta da sembrarci la versione deprimente della più scontata delle fiabe per bambine, e invece è storia.
È storia piuttosto consueta di una famiglia qualunque della seconda metà degli anni Quaranta.
Scena 1: uno schiaffone in pieno viso e via, come se niente fosse.
Ecco, io avevo questa immagine e il desiderio di mettere in scena - attraverso Delia - le donne che ho immaginato dai racconti delle mie nonne e delle mie bisnonne. Vicende vere, drammatiche, però narrate con disincanto, e addirittura la volontà di sorriderne. Storie di vite dure, condivise con tutte nel cortile. Gioie e miserie, tutto in piazza, tutto insieme, sempre.
In quei racconti c’erano le donne comuni, quelle che non sono passate alla storia, quelle che hanno accettato una vita di prevaricazioni perché così era stabilito, senza porsi domande. Questo è stato, questo a volte è ancora.

Da allora le donne hanno fatto grandi passi avanti, si sa, ma come sapete la cronaca ci racconta che in Italia si consuma un femminicidio ogni 72 ore, in media. Donne assassinate per la sola ragione per essere donne, il più delle volte da uomini che dicevano di amarle così tanto da considerarle loro proprietà.
Nel nostro Paese ci sono uomini, quindi, anche giovanissimi, che non hanno la capacità di gestire un rifiuto, che non tollerano l’emancipazione, l’allontanamento della donna che credono di amare. E questo, nei casi più tragici, si traduce con: 'o mia o di nessun altro, mai più'.

Quando ho scritto questo film insieme ai miei co-sceneggiatori abbiamo studiato le dinamiche, da lì siamo partiti, le dinamiche sempre uguali che oggi caratterizzano un rapporto malsano, definito tossico.

La donna è isolata, allontanata dalla famiglia d’origine e dalle amicizie; è continuamente vessata da un linguaggio denigratorio, subisce percosse e rapporti sessuali non consensuali.
Non è indipendente economicamente, non può scappare. La prigioniera perfetta, la preda perfetta.

Questa condizione, che oggi ci ripugna, era all’ordine del giorno alcuni decenni fa, e nessuno allora gridava allo scandalo, nemmeno le donne stesse, perché quello era stato prospettato loro fin da bambine: servire, ubbidire, sopportare, tacere.

Avevo intenzione di fare un film contemporaneo ambientato in un passato non troppo remoto e seguire la crescita di un germoglio spontaneo di consapevolezza in una donna che non sa nulla, che non conta nulla e che appunto si sente una nullità.
Delia, la nostra Delia, non vale niente, così le hanno insegnato, ma una lettera con sopra il suo nome - il suo, non quello del marito - e l’amore per sua figlia le accendono il coraggio di cambiare le cose.

Io ho trovato il riscatto di Delia, il finale del mio racconto, leggendo con mia figlia un libro per bambine sulla storia dei diritti delle donne. Ho provato a immaginare cosa abbiano provato quelle donne, quelle reali, nel ricevere una lettera in cui qualcuno, lo Stato in quel caso, qualcuno tanto più importante dei loro aguzzini domestici, certificava il loro diritto di contare.

Con C’è ancora domani ho voluto raccontare le imprese straordinarie delle donne qualunque che hanno costruito ignare il nostro Paese.
Delia è le nostre nonne e bisnonne. Chissà se loro hanno mai intravisto un domani. Per Delia un domani c’è: è un lunedì ed è l’ultimo giorno utile per cominciare a costruire una vita migliore.
La nostra Delia si salva, e non grazie al coraggio del cacciatore, né tantomeno fuggendo su un cavallo insieme al principe. Si salva esercitando un suo diritto, suo e di milioni di altre donne. Si salva con la consapevolezza e un ritrovato rispetto di se stessa.

Credo che - al di là dello stile e della bellezza del film, per chi lo abbia ritenuto tale - alla base di questo successo ci sia l’empatia, l’immedesimazione. Questo film trascende la fruizione cinematografica ed entra nel quotidiano, evidentemente, e questo non grazie alle mie capacità ma a causa, ahimè, di un’urgenza di riscatto.

Perché le giovani generazioni dovrebbero immedesimarsi con una storia del passato?
È cambiato tutto, io stessa non posso immedesimarmi in una donna del secolo scorso che è stata trattata al pari di una schiava. Ma allora cos’è che ci tocca? Cosa riconosciamo?
La violenza in tutte le sue forme. E se quella fisica per fortuna è una violenza che non ci ha mai riguardato, quella violenza ognuno di noi l’ha percepita almeno una volta nelle parole, negli atteggiamenti, nei commenti sgradevoli a scuola, a casa, sul lavoro.
Vive e prolifera nelle piccole cose, ci inganna piano piano. È così presente da risultare invisibile, talmente normale che la diamo per scontata e ci convince che così deve essere, come niente fosse. Non diamo per scontato che per un ragazzo una passeggiata notturna sia una passeggiata notturna mentre per una ragazza è un percorso potenzialmente pericoloso da affrontare in fretta e con mille cautele? È ingiusto, è folle, è sotto i nostri occhi ma a volte lo diamo per scontato, non lo riconosciamo perché è negli schemi.
Lo sentiamo da piccoli, quando alle bambine con un’indole vivace viene dato del ‘maschiaccio’. Qualcuno ha stabilito che le femmine debbano essere composte, pacate, remissive, graziose e che la vivacità debba appartenere al maschio, a cui viene attribuita non si sa come un’innata aggressività, che infatti diventa ‘maschi-accio’ Accio, dispregiativo se associato a una bambina. lo sentiamo quando ai bambini che piangono si dice ‘non fare la femminuccia’. Come se i maschi non avessero il diritto di piangere, di essere sensibili e fragili. La fragilità è delle femmine, individui deboli. Ucce, femmin-ucce, diminutivo.
Loro hanno facoltà di lamentarsi, ai maschi si impone di reagire e farlo subito, pure a cinque anni, quasi che un fisiologico tempo di delusione e di sconforto li esponga al pericolo di una qualche perdita della virilità.
Schemi, condizionamenti tramandati in buona fede se non dalle nostre famiglie dalla nostra società. Modelli in cui finiamo per rinchiuderci pur di piacere, di accontentare, di non deludere le aspettative.
Quello che mi auguro per voi ragazzi è che non abbiate mai paura di uscire dai condizionamenti. Che accettiate il rischio di sembrare strani o pazzi, se questo significherà scegliere. Spero, care ragazze, che non assecondiate l’idea che gli altri hanno di voi. Sono modelli che delimitano la vostra personalità e limitano le vostre prospettive. Spero, cari ragazzi, che siate parte attiva di questa lotta, praticando il rispetto, ammonendo chi non lo fa. Non siate indifferenti, l’indifferenza è una scelta, ed è quella sbagliata. Siate straordinari, concedetevi il dubbio, perché è la vostra libertà.
Come dicevo, non ho nulla da insegnare, ma a cinquant’anni ho qualcosa da raccontare. Vi parlo con l’unico vantaggio dell’esperienza. Se alla vostra età avessi potuto contare sul vantaggio di chi era più vecchio, non avrei commesso molti errori. Fate tesoro di chi è in vantaggio, traetene beneficio. Gli errori, si sa, aiutano a crescere. Commetteteli allora, ma fatelo nel tentativo, anche maldestro, di liberare la vostra creatività, di costruire la vostra indipendenza. L’errore che invece potete evitare è fare esclusivamente ciò che si aspetta da voi e quello che gli altri decidono per voi. Siate sempre i protagonisti del vostro progetto e mai le comparse del progetto di qualcun altro.
Grazie"



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