GIOIA IN CAMMINO

 

Henri Matisse, La gioia di vivere, 1906


"...quanto maggiore è la Gioia dalla quale siamo affetti, tanto maggiore è la perfezione alla quale passiamo, ossia tanto più è necessario che partecipiamo della natura divina. "

Baruch Spinoza, Ethica, Scolio prop.XLV parte IV


Se anche fosse vero che "la metafisica è residente, non cerca evasioni né vacanze" - come scrive Claudio Magris nella prefazione a "l'infinito viaggiare"-  probabilmente se i filosofi avessero viaggiato di più, avrebbero prodotto sistemi meno ignobilmente castranti le infinite possibilità di costruzione dell'essere umano ed avrebbero disattivato sul nascere ogni tentativo di fondare una presunta supremazia bianca, maschile, adorante il logos e la sua fredda capacità di descrivere la realtà. 
Le filosofe, manco a dirlo, naturalmente stavano a casa, ma questa stasi era colmata da miliardi di occupazioni e racconti, che forse consentivano alle menti di fluttuare ugualmente, in ogni caso le tenevano distanti dalla metafisica!

Spinoza è un'eccezione che va tenuta stretta. Un'anomalia selvaggia che viaggiò moltissimo e mise in piedi un sistema filosofico eccezionale, che permette a ciascuna/o di fare pace con i propri limiti e lasciare che le stesse emozioni possano mostrare quale strada sia giusto seguire. 
Ma di Baruch ce n'è uno solo. Troppi si avvitano in posizioni rigide e antivitali, che spengono la passione della ricerca trasformandola in mera, asfissiante erudizione.

Pochi hanno saputo spiegarci bene come Spinoza che è sapiente, ossia sa vivere secondo ragione, chi cerca di rendersi libero da tutte quelle passioni tristi e mortifere che recano danno all'individuo ed alla complessa armonia umana.  
Per Spinoza la sola passione da cercare, che alimenta e perfeziona l'essere umano, nutre il suo corpo e le sue connessioni mentali, non può che essere la Gioia.

La Gioia "è un affetto con il quale la potenza di agire del corpo è aumentata o favorita; la Tristezza, invece, è un affetto, con il quale la potenza del corpo è diminuita, o ostacolata; e perciò la Gioia è direttamente buona.".

Eppure dilaga proprio la tristezza, soprattutto, sembrerebbe, nella nostra epoca.
Magari a tutti coloro che hanno perso il senso della gioia si potrebbe suggerire la cura del viaggio.
Come scrive magnificamente Magris:

"Viaggiare è un’esperienza musiliana, affidata al senso delle possibilità piuttosto che al principio di realtà. Si scoprono, come in uno scavo archeologico, altri strati del reale, le possibilità concrete che non si sono materialmente realizzate ma esistevano e sopravvivono in brandelli dimenticati dalla corsa del tempo, in varchi ancora aperti, in stati ancora fluttuanti. 
Viaggiare significa fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative, con i suoi vuoti; con la Storia e con un’altra storia o con altre storie da essa impedite e rimosse, ma non del tutto cancellate."

Quando ci mettiamo in viaggio scopriamo novità non considerate e capiamo che non tutto viene mai davvero cancellato.
 "E qualcosa rimane" ben oltre le intenzioni di chi tenta di rimuovere il desiderio di esplorare senza pentimento ogni piega dell'esistenza, per impegnarsi ad obbedire a dei criteri di sopravvivenza che spesso prevedono muri ed interruzioni improvvise.

Pensiamo a due amiche che litigano per motivi risibili e da un giorno all'altro non sanno più niente di come stanno. Magari una delle due si è incaponita nel non lasciare alcuna speranza di riconciliazione all'altra, che, invece, continua a telefonare, mandare messaggi, torturare l'amica in cerca di una sua nuova parola.
L' intransigenza dell'interlocutrice nel non aprire nessun varco alle  successive richieste di dialogo risulterà all'amica verosimilmente snervante, ma in fondo va benedetta, perché costringe chi insiste nel tentativo irritante di recuperare occasioni e credibilità, a scoprire come tante volte sia inutile rimanere in cerca di una "redenzione" , che non si può estorcere in alcun modo.

 Arriva per tutte/tutti un momento in cui crollano tutti i fingimenti e si capisce che bisogna cambiare radicalmente prospettiva. E lavorare sull'accettazione.
 
Non si smette sul serio MAI di crescere e non solamente imparando qualcosa  di più sui propri limiti e sui limiti della propria società introiettati fino a farli nostri. 
Si cresce ( o, forse, si invecchia solamente) anche scoprendo quanto siano insindacabili i giudizi e la sacra libertà dell'altra/o che desideriamo non perdere di vista. E che invece dobbiamo lasciare in pace.

E'  il terrore di poter morire lasciando alcune ombre irrisolte alle  spalle, che spesso spinge alcuni a preferire il perdono e la gratitudine alla rigidità e al distacco ostili, ma in questi atteggiamenti di protezione esistono ragioni nascoste, che vanno rispettate. 

Nessuna e nessuno di noi se ne andrà sostenuto da una pienezza luminosa e liscia, senza crepe. 
Ognuno ha le sue mancanze, i suoi vuoti, certe increspature dolenti e indelebili, invisibili in superficie ma che rimangono ben chiare allo sguardo indagatore della coscienza, che un po' cattiva probabilmente rimarrà per tutte/i. 

La perfezione, in definitiva, non è di questo mondo. Affermazione, questa, super banale, che, pure, non sembra condivisa fino in fondo da tutta l'umanità.
  C'è chi la cerca nel corpo, senz'accorgersi dell'inevitabile corruzione e decadenza che lo riguarda (o, meglio dire, preferendo ignorarlo); 
c'è chi tenta di raggiungerla nelle arti che ha imparato ed esercitato negli anni, seguendo derive ed approdi noti o ignoti alla massa;
 e c'è chi cerca la perfezione nel linguaggio, perché è "la casa dell'Essere", ma si può arredare malissimo e viverci comunque in modo accettabile. 

C'è anche chi la cerca nell'amore, nell'amicizia, nella prossimità sempre più prossima agli altri che incrociamo nel nostro cammino e con cui condividere gioie ed affanni dà senso e lievità alle nostre giornate. 
Questo tipo di perfezione non è e non può che essere soggetta a numerose variabili che la rendono fragile, umana, non statica e immutabile, come quella "divina". E nemmeno come quella che  spesso crediamo sia la perfezione inseguita dagli scienziati che trascorrono l'intera esistenza imparando e, se particolarmente illuminati, magari anche lasciando all'umanità un pezzettino di quel sapere prodigioso che aiuterà la civiltà a progredire materialmente o culturalmente.

La perfezione delle relazioni umane penso sia data dal grado di soddisfazione reciproco che possono vantare coloro che intrattengono un legame che, per essere tale, va coltivato. 
E ciascuno negli anni impara quale sia la giusta dose, ma solo dopo innumerevoli prove e tentativi falliti, perché non nasciamo "insegnati" e nemmeno noi abbiamo idea di come e quanto ci piaccia avere gli altri intorno. 

Tuttavia, bisogna ammettere che dovremmo benedire intimamente ogni giorno il dono incommensurabile che ciascuno di loro è nella nostra esistenza. 
Perché tutto questo voler bene e spingersi oltre la prigione della propria inquietudine alla ricerca di un NOI è segno che siamo difettosi, mancanti, bisognosi di cure ed attenzione e desiderosi di manifestare anche agli altri la voglia di partecipare alle loro vite, sapere come stanno, quali preoccupazioni li turbano e che progetti hanno, senza accontentarci di rapide chat o telefonate sincopate.

Il tempo della comunità è quello che più sembra drammaticamente messo in crisi dalla società tardo capitalista. 
Il tempo nostro, per sentirci casa, famiglia, tepore, pieno di contraddizioni ma denso di affetto misterioso e prezioso, linfa vitale che manca all'eremita e persino agli dei.

L'autarchia non è la perfezione umana. Probabilmente, anzi, è una patologia misantropica che va rivista nel suo potenziale attrattivo sulla società occidentale.

Le fasi solitarie sono indispensabili, ma lasciate che in questo sermone irritante ribadisca che isolarsi è sempre sbagliato

Se qualcuno non vi dà più conto, lavorate sull'accettazione del buco lasciato, ma tornate in fretta a rimettervi in cammino e ad esplorare la vita, senza inchiodarvi alla sensazione angosciante di aver perduto per sempre la gioia di vivere.

 Siamo fatti per incontrarci, perderci di vista e desiderare nuovi incontri. Perché è bello così. O almeno io, che tanti anni fa ho conosciuto un paio di prolungate fasi dolorose (per me, ma soprattutto per chi mi vuole bene) di lontananza estrema da tutti i miei cari, adesso proprio non riesco a pensare diversamente la mia vita.

Per concludere, la proposizione spinoziana, a cui la frase posta in esergo del post fa da scolio, recita:

L'Odio non può mai essere buono.

Dimostrazione Noi ci sforziamo di annientare l'uomo che odiamo cioè ci sforziamo di fare qualcosa che è male.

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Odiare non serve e fa male a tutti. Grazie Baruch.
La buona notizia è che guarire dall'odio è possibile, anche in quest'era di pazzi arrabbiati che sembra non riescano proprio a venire fuori dalla logica perdente della guerra.
Mettersi in cammino cercando di rimuovere le ragioni (contro natura) dell'odio e battere strade alternative è necessario. 
Per la gioia di tutti!

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