DIRSI ADDIO

Eternal sunshine of the spotless mind

"L'addio è il prezzo da pagare per la nostra vita mortale", Emily Dickinson.

Il tema dell'addio è complesso e sovraccarico di tonnellate di pregiudizi che, almeno di tanto in tanto, occorrerebbe mettere in circolo.
La professoressa Carola Barbero in questa bella intervista con Camurri che vi suggerisco di guardare qui: L'addio , dice che con l'addio "assistiamo alla nostra personale catastrofe".


Ed i sentimenti che ci riguardano sono contrapposti, come sappiamo bene tutti noi che ci siamo passati. A meno che non si tratti di una fine raggiunta per sfinimento ed in totale disamore reciproco (situazione che, bisogna essere onesti, si presenta assai raramente), separarsi comporta sempre un'oscillazione tra una sensazione di sollievo e liberazione ed una di spaesamento e terrificante paralisi, come all'indomani di un lutto.




Dimmi addio
Dimmi che non sono più io
Mi sono allontanato dal tuo cuore
E tu non hai saputo far nient'altro che
Che dirmi addio
E mi vien da ridere
Mentre mi sento morire
Ma quanto è vero iddio
Voglio vivere
fino in fondo
Tutta la mia vita


La professoressa Barbero nell'intervista, ricorrendo a riferimenti letterari e filosofici importanti, mostra con garbo che, contrariamente a quello che si pensa, l'addio spesso sia un regalo e che non dovrebbe procurare il dispiacere sociale, tutt'altro.

Ad uno sguardo di cordoglio nel raccontare di aver posto fine ad una relazione, sarebbe preferibile trovarsi davanti occhi entusiasti che dicano gioiosamente un "brava! Hai fatto bene!".

Spiega, infatti, la prof. Barbero:
"Victor Hugo dice che gli occhi che hanno pianto di più sono quelli che vedono meglio, perché il pianto lava, consente di vedere meglio.
Sicuramente gli addii sono accompagnati da molte lacrime, ma a me piace anche vederli come un regalo che ci si fa . Perché spesso gli addii sono inevitabili. Uno può non metterli in atto per altre ragioni, per paura di rimanere da sola o da solo, per timore delle conseguenze sociali, perché, per quanto oggi la nostra società sia apparentemente più evoluta, ha in realtà delle pesanti ricadute a livello sociale; a livello personale uno non sa stare da solo; però non mi piace associarlo al pianto. Perché se uno si rende conto che è inevitabile, l'unica cosa che può fare è accettarlo. E accettarlo vuol dire rendersi conto che quella coppia- pensiamo all'antropogenesi mitico fantastica del Simposio, quel fare di due uno o, come dice Hegel, quel perdersi nell'oblio di un altro se stesso per ritrovarsi-, ecco tutto questo non c'è più, non c'è più niente".


Personalmente non mi sono mai trovata a gestire gli addii con tanta facilità e non penso che c'entri con l'essere possessivi.
Credo più semplicemente che si chiami romanticismo, dispiacere profondo, struggimento autolesionistico che fa parte dell'umano, senza tradursi in una volontà distruttrice dell'altro, forse solo più di sé stessi.
L'addio, insomma, devo ammettere che per me non sia mai stato affatto un'operazione chirurgica.

Che l'amore non sia eterno lo si impara dopo tantissime sofferenze, dopo decine, centinaia di pomeriggi trascorsi ad ascoltare canzoni strappalacrime, riguardare foto e video dei bei momenti insieme, o rileggere lettere, messaggi e cartoline, scatenando angoscianti tormenti legati alle possibilità di tornare indietro e riaprire le ferite, che si cerca di ricucire in modo maldestro, spesso inopportuno, anche quando non si è dei maniaci...
Si frigna, ci si lagna, ci si sfoga con tante telefonate ed uscite con le amiche e gli amici e ci si consuma in molte, moltissime notti insonni.
Si chiama adolescenza e dubito che tutte le adulte e gli adulti che si pronunciano con tanta sicurezza sulla necessità di chiudere "relazioni tossiche" siano state/i tanto fortunate e fortunati da non averle conosciute nella loro.
E nemmeno che non siano stati protagoniste/i di situazioni simili anche superati i venticinque anni.

Le relazioni sono complesse e misteriose, non esistono ricette infallibili perché si mantengano in piedi. E, per quanto si somiglino alla fine forse tutte, ciascuna ha una sua peculiare fisionomia irriducibile a tutte le altre.

Amarsi "per sempre" forse è solo nominare l'altro custode della propria solitudine, come diceva qualcuno, decidendo di autoingannarsi insieme che nulla muterà l'intensità del sentimento o accettando di far fronte comune davanti ai cambiamenti inevitabili, arginando la dispersione.

Costruire un amore duraturo è comunque estremamente arduo, ma, solo dopo che si è già conosciuto più volte l'inganno e la tragica disillusione, e lottando per non sprofondare in un grigio cinismo di chi non intende rischiare mai più di soffrire in modo smisurato, ormai che ho 41 anni, due figlie ed un marito che amo, penso finalmente che sia possibile trovare la chiave per non arrivare a considerare mai l'addio una possibilità.

Se comunque riduciamo tutto il patimento del lasciarsi alla chiusura gelida di un contratto, per prima cosa dobbiamo accettare che non esista più letteratura, che non esistano più canzoni d'amore ( da "Amore che vieni, amore che vai" a "Verranno a chiederti del nostro amore", passando per "Lontano" di Tenco, a "Le cose più rare" di Cosmo, a "Back to black "di Amy Winehouse perchè "We only said goodbye with words/ I died a hundred times" a Hedonism degli Skunk Anansie ad US di Regina Spektor e milioni di milioni di altre), che non ci siano più film che raccontano di bivi dolorosi e strade incompiute e dissolte nella nostra memoria (uno su tutti, l'incantevole Eternal Sunshine of the spotless mind da cui è tratta l'immagine iniziale del post).

E poi non comprendiamo nemmeno cosa muova le patologie che, se non trovano dei correttivi nella comunità, possono sfociare in tragici epiloghi di annientamento dell'altro, alla cui assenza ci si è convinti di non riuscire a sopravvivere.
Non sto minimamente giustificando l'atrocità dei femminicidi, che ho condannato con fermezza fino a ieri qui, ci mancherebbe. Vi prego di non fraintendermi.

Ma mi sforzo di non semplificare la grammatica sentimentale, non dimenticando quanto sia profondamente faticoso reagire al dolore e quanto sia anche superficiale, concedetemelo, avanzare la tesi che dirsi addio sia solo una questione di determinazione e forza d'animo che la società deve incoraggiare.

I tormenti del privato ci insegnano sempre quanto il comportamento umano, maschile e femminile, rifugga ogni comoda etichetta e didascalia che lo rendano prevedibile e lineare.

Non avremo mai una piena chiarezza dei meccanismi che lo muovono, di quanta vasta sia la vulnerabilità dell'inconscio e inesplicabile la ricerca di un equilibrio.
E forse si deve accettare di non raggiungere una certezza incontrovertibile su cosa popoli i meandri della mente di una persona, e smetterla di scagliarsi con violenza lapidaria, convinti di non essere mai dalla parte del torto.

Ciò di cui abbiamo bisogno e avremo bisogno anche domani, invece, è il desiderio di comprendere senza giudicare, avvicinandoci a tutti coloro che falliscono senza ergerci a moralisti detentori della VERITA'.

Che la pietà non ci rimanga in tasca, insomma, MAI.


INTEGRAZIONE
Aggiungo la presentazione con cui ho accompagnato su facebook la condivisione di questo post:

In attesa che si compia questa mirabolante rivoluzione del machismo che ostacola da secoli la libertà femminile, tenendola ancora nella morsa della paura, ho scritto un post nel blog che temo verrà frainteso.
Chiarisco subito: non ci saranno mai attenuanti alla perversione di Filippo Turetta o di tutti gli altri criminali che hanno cancellato il loro "oggetto" del desiderio, seguendo piani terrificanti, su cui la società non può che esprimere compatta il suo disgusto e la sua ferma, pubblica riprovazione.
E infatti non ho nessuna intenzione di cercarle.
Ma per me, che ho letto e riletto in gioventù "Frammenti di un discorso amoroso" di Barthes, è importante difendere la grammatica sentimentale da una sua estrema semplificazione.
Lasciare andare qualcuno non è un'operazione chirurgica.
Oltre il riconoscimento al diritto - che oggi pare negato dai ritmi capitalisti da "sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re"- ad una certa "voluptas dolendi" che riguarda ogni essere umano, il fatto che gli amori non siano eterni si impara con gli anni.
Forse, in questa logica da tifoseria perpetua o da chiacchiera da caffè volta ad ammonire per edificare nuovi costumi davvero evoluti, c'è un elemento che potremmo brevemente considerare:
ciò da cui dovremmo veramente guardarci bene, maschi e femmine, è L'ESCLUSIVITA' e l'accartocciamento del rapporto sentimentale in se stesso, privo di un radicamento affettivo ed effettivo nella comunità.
E quando questo accade, bisogna che si crei allarme ed intervengano i più "vicini" alla coppia, per evitare tragedie.
Basta un attimo a passare dall'essere discriminate per secoli ad iniziare a discriminare i maschi tutti, indistintamente, perché pericolosi e potenziali omicidi, incapaci di gestire la nostra indipendenza guadagnata con tantissima fatica, bollati come "figli del patriarcato" che li conduce a non saperci trattare con rispetto, talvolta anche al di là delle loro buone intenzioni.
Il processo della liberazione dagli aguzzini e da tutte le pratiche di sopraffazione, più o meno esplicita, che sono state esercitate sulle menti e i corpi delle donne è un processo lungo e desideroso di accogliere quanti più testimoni e protagonisti, di entrambi i sessi.
Ma non può essere un processo sommario, che si avvale di generalizzazioni, che sono sempre ingiuste e pericolose.
Sarebbe bello che ciascuno e ciascuna facesse i conti con se stessa /o e tutti i mostri e fantasmi che abitano il suo abisso interiore, senza aver fretta di giudicare e condannare, ma solo di comprendere un po' meglio questa pazza contemporaneità, piena di contraddizioni ( "solo l'amore ci salverà" / "ci si salva solamente da soli"), corti circuiti neoliberisti ( "produci consuma crepa"/ "ama senza consumare, ma fatti consumare senza lamentarti, accettando senza lagne la fine") e molta, troppa ignoranza dilagante, cui non può che seguire una preoccupante e drammatica esacerbazione della violenza.
Tornare ad educarsi tutti, piccoli e grandi, potrebbe forse contenere la barbarie. Devo crederlo, perché cittadina, madre e un dì, spero non più solamente "in pectore", professoressa.
E se invece la barbarie ormai avanzasse inghiottendo con sé anche ogni debole speranza di riscatto e opposizione, almeno voglio cercare di non darla vinta a quella che potrebbe germogliare in me, smarrendo le basi della nostra cultura: pietas e humanitas.
Ad maiora!


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