Decostruirsi per ricostruire



 Un pezzettino microscopico tratto dalla mia lontanissima ed elefantiaca tesi di laurea del 2008  (270 pagine, poveri relatori!), quando mi sentivo un "noi" 😜


                                                             CAPITOLO IV

IL CIRCOLO ERMENEUTICO E LE SUE INTERRUZIONI

1. "Il mondo non c’è più, io debbo portarti”- 2. Interruzioni. Il viso non significa- 3. Ermeneutica e decostruzione. 4. Ultimi colloqui gadameriani

 

                                                                                   

“Devo esprimermi in modo da non affermare nulla, ricercare ogni cosa, dubitare del più e non fidarmi di me”

Cicerone

 

 

1.    “Il mondo non c’è più, io debbo portarti”

 

Hans Georg Gadamer muore il 13 marzo 2002 alla Clinica universitaria di Heidelberg. “Anche se era attesa da lungo tempo, la sua morte è giunta come uno choc. È stato l’ultimo testimone di un’epoca, di un mondo basato sui valori dell’umanesimo, e non sullo spirito della tecnica che permea così tanto la nostra civilizzazione moderna. Finchè era ancora in vita, ha rappresentato qualcosa come una speranza che un altro tipo di cultura, di grandeur, fosse possibile. C’è in vita qualche pensatore della sua statura? Proprio no. Così il suo lutto è stato profondo, a dispetto dell’apparente «normalità» di una morte che sopravviene ad un’età quasi biblica.”[1].

Così, con il suo tono decisamente “agiografico”, Grondin commenta la morte del filosofo tedesco, ricordando come persino papa Giovanni Paolo II inviò un telegramma di condoglianze, lodando il filosofo come “un nobile umanista”, del quale aveva potuto apprezzare “la sua probità nella questione della verità, l’acutezza del suo pensiero e l’accorato rispetto per il suo  interlocutore nel dialogo e per i valori dell’eredità cristiana”. E continua: “Rompendo un silenzio pubblico di più di vent’anni, dopo il loro primo incontro che risale al 1981, anche Jacques Derrida […] si è fatto sentire. Se ha rimandato così a lungo il coinvolgimento in un dialogo pubblico con Gadamer, lo ha fatto perché, in qualche modo, pensava che lui fosse immortale. Una speranza irrazionale, naturalmente, ma qualcosa in lui faceva sentire che doveva essere così: il “bon vivant” Gadamer emanava così tanto amore ed affermazione della vita da meritare di essere immortale, forse perché noi tutti avevamo bisogno di qualcosa come un “testimone assoluto” che avesse partecipato a tutti i dibattiti filosofici del XX secolo. Guardando indietro al loro dialogo del 1981 e alle loro differenti concezioni dell’ermeneutica e del linguaggio, Derrida poteva soltanto inchinarsi dinanzi a Gadamer: «Quanto aveva ragione, allora e ancora oggi»”[2].

Onestamente non accettiamo integralmente questa visione che vedrebbe un Derrida tornare pentito, come nella parabola della pecorella smarrita, per testimoniare la magnificenza dell’opera di Gadamer. Non riteniamo si sia trattato di semplice retorica di circostanza, e, come adesso si vedrà, saranno anzi estremamente sentite e profonde le parole pronunciate da Derrida a quasi un anno dalla scomparsa di Gadamer, il 15 febbraio del 2003 ad Heidelberg[3]. Solo che non vorremmo lasciar pensare che, in un certo senso, “il cerchio si chiuda”, perché se Derrida riuscì a spezzare il silenzio, riprendendo quel dibattito parigino, nel frattempo continuato virtualmente grazie all’edizione americana del 1989[4], è stato proprio in virtù di una interruzione. Di Cesare dice che “Derrida ricomincia da quel singolare cominciamento che è stata ed è l’interruzione – argomento  della sua terza domanda posta allora. Non si tratta di un «malinteso originario»[5], dal momento che, secondo la studiosa, che riprende ciò che Derrida scrive in Béliers, si è trattato piuttosto di una « sorta d’interdetto », la «inibizione di un non deciso» e «la pazienza di un’attesa indefinita, di una epokhè che trattiene il respiro, il giudizio o la conclusione»”.[6]

“Il dialogo ininterrotto, a partire da quella prima «apparente» interruzione, oltre e dopo il dialogo nel mondo che, ammette Derrida, è stato sempre in francese, seguiterà a essere un dialogo interiore – ben diverso dal monologo  interiore, perché lo precede e lo rende possibile.”[7]

Quella interruzione non ci è sembrata tuttavia apparente, ma necessaria. Alla radice dell’improbabilità del dibattito, come si è visto, c’era per noi qualcosa che rendeva le posizioni di Gadamer e di Derrida inconciliabili e osservare a partire da questo contributo derridiano il rapporto tra ermeneutica e decostruzione rischia di ripetere quel “vizio” ermeneutico di ammorbidire le tensioni in nome di una mediazione, capace di inglobare al suo interno anche la frattura. “La promessa e l’impegno- prosegue D.Di Cesare- trovano espressione nel verso di un altro amico, di un amico comune, di Gadamer e di Derrida: Paul Celan. Il mondo non c’è più, io debbo portarti. Il tema della morte, dell’interruzione ultima, si intreccia, nel discorso di Derrida, con il tema del dialogo, ma anche, nel solco di Gadamer, con quello della poesia. Fanno da sfondo qui due opere di Gadamer a cui Derrida continuamente si riferisce: Gedicht und Gespräch (Poesia e dialogo) e il libro precedente Chi sono io e chi sei tu? Su Paul Celan[8]

Attraverso la poesia di Celan il dialogo continua. L’omaggio di un’interpretazione è forse anche l’omaggio al modo in cui Gadamer l’ha intesa – pensando al testo poetico – come Zwischenrede, discorso che s’interpone e interrompe, «interruzione».”[9]

In un passo di Ermeneutica sulle tracce, Gadamer, infatti, scrive: “L’interpretazione è sempre una cosa delicata. Ciò è già implicito nel fatto che essa è nella sua essenza (e nella parola stessa) “interruzione” (Zwischenrede). Essa interrompe il processo dell’andare insieme (Mitgehen). Ciò ci è già noto dai testi poetici. Non per questo una tale interruzione è superflua. Dovunque ci imbattiamo in qualcosa di incomprensibile ci viene in aiuto l’interpretazione. Ma essa raggiunge il suo scopo solo se porta un contributo a quel processo che altrimenti sarebbe bloccato per la sua incomprensibilità. È questo un campo molto ampio di problemi, con il quale ci troviamo continuamente confrontati quando abbiamo a che fare con l’arte. Infatti- dove ci sono qui confini marcati?”[10] La promessa e l’impegno derridiani, dunque, concedono al “dialogo ininterrotto”, incontro-scontro fra arieti, si potrebbe dire, alludendo al filo del poema che li ha accomunati, una nuova occasione. E il fatto stesso di ospitare nel proprio lessico la parola “dialogo” per annunciare una interpretazione imprevista, sarebbe, nella suggestiva interpretazione della Di Cesare, un segno che quel “dibattito improbabile” sia “riuscito” grazie all’interruzione, “lasciando così una traccia attiva, promessa a più di un avvenire”.

 “«Dialogo»: la parola è testimonianza di ammirazione e affetto. Derrida, che l'ha sempre evitata, la accoglie e la ospita come una parola straniera che viene dalla lingua di un altro, dalla lingua dell'amico, dalla filosofia di Gadamer. E precisa che il dialogo ininterrotto è anzitutto un «dialogo interiore»: Derrida lascia che Gadamer parli ancora dentro di lui. […] Quell'incontro non è stato un incontro mancato; al contrario è «riuscito» lasciando una traccia, una promessa per il futuro. Il segreto di quel dialogo è stata una estraneità singolare legata a una intima familiarità.”[11]

Riportiamo adesso le parole della Di Cesare- intervallate da nostre brevi “decostruzioni”- perchè difficilmente si potrebbe restituire in altro modo la lucidità, mista a malinconia, con cui le parole della filosofa raccontano la ripresa di quel dialogo tra ermeneutica e decostruzionismo, all’interno del quale, sia pure in modo estremamente dilettantesco, abbiamo scelto di collocarci anche noi.

“Ma ora Gadamer, l'amico, e insieme colui nel quale Derrida riconosce «l'immenso testimone», il filosofo della sua generazione, è morto. La malinconia senza tempo, già avvertita a Parigi, è ora infinitamente aggravata dalla morte. «A jamais». E questo A jamais non può non ricordare l'Adieu che Derrida ha tributato a Levinas nel 1996. La malinconia è anche questa triste certezza che un giorno la morte ci separerà, che un giorno uno dei due amici vedrà l'altro morire. «Il dialogo, per quanto virtuale possa essere, sarà per sempre amputato da un'ultima interruzione». È di fronte a questa ultima interruzione che ora Derrida si trova; la prima interruzione non ha fatto altro che precederla, anticiparla implacabilmente. Ma quest'ultima interruzione è una separazione non paragonabile ad altre: la separazione tra la vita e la morte. Cosa avverrà dopo questo sigillo che la morte ha impresso al dialogo? Il dialogo continuerà? Sarà pur sempre un dialogo interrotto?
La promessa e l'impegno trovano espressione in un verso di un altro amico che li accomuna entrambi: Paul Celan, il poeta della Shoah. Il mondo non c'è più, io debbo portarti. Il dialogo continua in colui che sopravvive e che dentro di sé lascerà una volta di più la parola all'amico scomparso e da solo si farà carico di proseguire il dialogo al di là dell'interruzione.

Il mondo non c'è più, io debbo portarti. Per quasi un'ora Derrida, seguendo un principio ermeneutico applicato da Gadamer nel suo libro su Celan, isola l'ultimo verso della poesia Grosse, glühende Wölbung (Grande, infocata volta), tratta dal ciclo Atemwende (Svolta del respiro), e ne fa l'aforisma, il verdetto della sua commemorazione. Che cos'è la morte dell'altro? La morte dell'altro è «il mondo dopo la fine del mondo». Ogni volta in modo singolare, insostituibile, infinito, la morte non è la fine di qualcosa o di qualcuno nel mondo, ma è piuttosto, e ben di più, la fine del mondo. La morte «marca ogni volta, ogni volta sfidando l'aritmetica, la fine assoluta del solo e unico mondo», del mondo di quell'unico essere vivente che non c'è più. E chi sopravvive resta solo. È privato del mondo. «Die Welt ist fort: il mondo è fuggito, il mondo ci ha lasciato, il mondo non è più, il mondo è lontano, il mondo è perduto, [...] il mondo è deceduto». E chi resta si sente il solo a dover portare l'altro e il suo mondo.”[12]

Ci sia concesso immaginare, quindi, che, come un qualsiasi uomo che perde un suo caro, Derrida potrebbe dire: “Ed io dovrò inventarmi tutte le parole giuste, importanti, che ti facciano resistere al di là della decomposizione del tuo corpo, al di là della conclusione di tutti i nostri giochi insieme. Tu non ci sei più. Con te sono morte tutte le parole che hai detto e con te sono morte tutte le parole che avrei dovuto dirti. Tenterò attraverso Celan di ridarti la voce che hai perduto. Ma non basterà neanche una poesia per farci rincontrare. Il tempo, il kairòs, io non l’ho trovato. Non sono stato abbastanza bravo da trattenere la fretta di far balenare la mia opinione e prevaricare la tua, causando una rottura. Ed ora non mi resta che amarezza. E dolore. Muto. Nero, che non chiede nulla. Che non può più scivolare in gorghi di senso e dissenso, che non troverà il tuo assenso da nessuna parte. Tu non ci sei ed io non avrò modo di sfuggire alla condanna della mia coscienza per averti trascurato”. Abbiamo detto di un uomo qualsiasi, perché il ricordo di un’incomprensione, così pesante da sopportare e che la coscienza che indaga probabilmente conserverà come monito per non perdere occasioni di possibili chiarimenti con i vivi intorno a lui, non è affatto raro che accompagni le riflessioni di chi ha appena perduto qualcuno. Ma quando si tratta di “idee” filosofiche, può il timore di ferire l’altro diventare un motivo per trattenersi dall’esprimere il proprio punto di vista?

Ogni morte rammenta la fragilità delle nostre vedute, ci ricorda quanto al di là della ragione, ciò che più conta è tenere all’altro, aver pietà di lui, averlo “a cuore”, quando mai lo si potrà “avere a ragione”. Portarlo sopra di noi, oltre le nostre ambizioni, annullandoci.

Derrida dice, infatti, rivolgendosi a Gadamer:  Ich muss dich tragen (io debbo portarti).  La Di Cesare scrive a questo proposito: “Ma che significa portare?

Qual è la portata, o la gravità, di questa parola? Per pensarla occorre pesarla. E Derrida avvicina qui con una figura etimologica, che contrappone quasi al Denken-Danken (pensare-ringraziare) di Heidegger, il francese penser e peser, pensare e pesare. Per pensare e pesare occorre portare, portare in sé e portare su di sé.”[13]

Ogni morte ci insegna cosa vuol dire amore, congiungendo l’inizio con la fine, nella consapevolezza di quell’assenza perpetua dell’uno e dell’altra, che da quel momento in poi ci accompagnerà nel pensiero della persona scomparsa. Dove va? Dove se ne è andata? Resta in me? Pregherò per lei? La farò sopravvivere? Pensare alla morte propria e degli altri rinvia immediatamente alla vanità della nostra ragionevolezza. Non conta assolutamente più avere ragione. Non conta più stabilire insieme o decostruire solitariamente ciò che è da pensare. Annientata è ogni parola. Voce e scrittura sono inceppate per sempre. Perché tutto il mondo è sparito. E ogni grazia si è frantumata. Non può essere ricondotto a nessuna comunità e non può essere compreso nella sua solitudine chi contempla con disperata angoscia l’assenza di chi resterà per sempre assente. Il mondo ha smesso di ospitarlo, le stelle sono cadute dal cielo, la luna si è oscurata. E un momento dopo tutto tornerà come prima, violentando quel dolore funereo, che non chiede che restare identico a sé stesso, perché quella traccia non si cancelli ancora. Per questo motivo, Derrida isola un altro verso della poesia di Celan, Wege im Schatten-Gebräch (Passaggi nel conglomerato d'ombre), che ha per tema quello della benedizione. “Scavando convulso estraggo la tua benedizione pietrificata.”

La benedizione qui non è data, ma è cercata, e sembra anzi estorta, come dice Di Cesare. “È come se la benedizione, esercitando una pressione, cercasse di aprire una mano già richiusa su di sé e sul suo senso. Ma una benedizione - si chiede Derrida - può essere estorta, o non deve forse sempre restare «improbabile»?”[14]

Ritorna, così, quell’aggettivo che caratterizzò il dibattito di Parigi, e che, pertanto, “ci suggerisce una continuità e anche qualcosa di più. La benedizione è anzitutto quella del poema. È sotto il suo segno che Derrida vuole iscrivere questo momento di commemorazione. La mano benedicente che sembra aprirsi nel groviglio delle linee interrotte e delle pieghe è forse quella di Gadamer. La mano di Gadamer si confonde con quella del testo poetico. In entrambi i casi il testo della mano è destinato a sopravvivere, in un processo «infinito», ma «discontinuo», finito e infinito insieme, alla decifrazioni di tutti i lettori a venire. Proprio la sua illeggibilità è la risorsa che gli permette di benedire, di dare, di dare a pensare. Questo resto di illeggibilità è ciò che ha reso possibile l'ermeneutica e che l'ermeneutica rende possibile”.

È, dunque, “in nome dell'ermeneutica, tentando di esserle fedele, portando l'ermeneutica, per quell'alterità singolare che ha in sé, al di là di se stessa, che Derrida legge la costellazione del poema di Celan, la configurazione delle stelle in quella «grande volta infocata». In primo piano, nel paesaggio ebraico che Derrida percorre, c'è l'ariete, l'animale del sacrificio e dell'olocausto, le cui corna sono lo strumento dello shofar suonato a Rosh ha-Shana, il primo giorno dell'anno e a Yom Kippur, il giorno dell'espiazione: tra queste due date fatidiche la scrittura di Dio può portare gli uni e non portare gli altri nel libro della sua vita.

Quando il mondo è morto con te, io ti devo portare, te solo in me e in me solo. Non c'è più mondo che ci sostenga. Resta solo forse «l'altitudine abissale di un cielo». Rimasto solo al mondo, davanti a te, che ora dipendi da me, devo portarti e assumerti, devo assumermi la responsabilità a cui devo rispondere davanti a te e per te. Portare, verbo della nascita (una madre porta in grembo un figlio), è anche verbo della morte (si porta il lutto). È con Freud, Husserl e Heidegger, che Derrida precisa il valore di portare. «Portare non vuol dire `comportare', includere, comprendere in sé, ma portarsi verso l'inappropriabilità infinita dell'altro, incontro alla sua trascendenza assoluta dentro di me, cioè in me e fuori di me». Io devo portare l'altro ma anche l'altro deve portare me. Portare si rivela allora trasportare, tradurre. È il «violento sacrificio del passaggio al di là». Qui più che mai, in questo passaggio, alla ricerca di un orientamento nel mondo - e forse di un nuovo pensiero del mondo, dopo che il mondo non c'è più - c'è bisogno dell'altro, di portare l'altro, di essere portati dall'altro. Qui - dice Derrida - «c'è ancora bisogno di lui», di Gadamer, «là dove parla in noi e davanti a noi».”[15]

Che queste commuoventi parole di Derrida, riassumibili nell’impegno Io ti devo portare, siano, come dice lo stesso filosofo algerino, «una dichiarazione e un impegno» nei confronti del maestro del dialogo, dunque una “promessa intima, l'impegno segreto che tuttavia Derrida ha voluto pubblicamente offrire a Gadamer”, come sostiene Di Cesare, è qualcosa che non vogliamo indagare, assumendo naturalmente come sincere le intenzioni derridiane di portare Gadamer, proseguendo il dialogo interrotto dalla morte del filosofo tedesco. Come, infatti, è vero che non è nel dialogo che si esaurisce la vita, altrettanto vero è che, quasi sempre, nel silenzio si originano le più catastrofiche incomprensioni. Ma se Derrida non avesse originato questa frattura, non si sarebbe potuto osservare da vicino ciò che pensiamo costituisca la reale fragilità dell’ermeneutica.

Se, cioè, il francese non si fosse così ostinatamente- anche lui- tenuto alla larga da Gadamer, forse non sarebbe magari neppure potuto “ritornare sui suoi passi”, a cercare la benedizione in un pensatore che per tante, troppe ragioni era difficilmente apprezzabile da Derrida, senza con questo sostenere che fosse assente in lui un “riconoscimento” dell’indiscutibile statura morale e “filosofica” dell’ermeneutica gadameriana. Questa considerazione ci porta, insomma, a domandarci qualcosa di banale, sulle prime, ma che crediamo sia alla base dello scacco cui si prestò  inevitabilmente l’ermeneutica nei confronti del decostruzionismo. Lungi dal presentarsi come tale,[16]l’opera gadameriana, quando vuole essere “dialogica”, finisce con l’avere a nostro avviso un tono prescrittivo, che non è per niente “sano” ai fini della ricerca di un “accordo”. Se in Gadamer, esagerando, potrebbe dirsi sia presente, insomma, una nevrosi -nel senso affettuoso- della “comprensione” -che, specie per chi non si affatica a guadagnare lo “spirito” che anima le convinzioni del tedesco, basta davvero poco perché si trasformi in una metafisica della soggettività- come avrebbe potuto questa nevrosi trovare un punto d’incontro con quella di segno opposto derridiana?

Di Cesare conclude l’articolo[17] “in questo impegno di pensare l'altro, portare l'altro, rispettandone l'alterità, c'è anche e soprattutto l'impegno da parte della decostruzione di continuare il dialogo con l'ermeneutica guardando, oltre a ciò che è differente, anche a ciò che è comune. È un impegno, quello di Derrida, verso il fondatore dell'ermeneutica filosofica, verso l'ermeneutica filosofica, verso quella che viene chiamata «filosofia continentale» e rispetto alla quale Gadamer si chiedeva: ma non è la filosofia? È un impegno allora verso la filosofia.”[18]. Così noi ci chiediamo se non sia il caso che anche l’ermeneutica debba impegnarsi ad accogliere il senso radicale della interruzione, della frattura, impegnandosi, cioè, a non ammorbidire ogni tensione, nella speranza che un’intesa sia sempre possibile. Perché certe rotture sono fondamentali, feconde ed è bene, forse, imparare a guardarle con uno spirito quasi “anti-gadameriano”, senza intenzione di restare quanto più possibile sulla soglia del cratere a domandarsi quanto sarà profondo e se, dopo tutto, non possa gettarcisi sopra un pò di cemento, in modo da far finta di nulla. A volte è “meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati”[19]. Ma se la verità è storica  e noi siamo sempre troppo miopi per intenderla, tante volte forse è bene anche rinunciare ad “essere compresi”, continuando, tuttavia, a cercare di comprendere.




[1] Jean Grondin, Gadamer. Una biografia. , Bompiani, Milano 2004, pag.515.

[2] Jacques Derrida, Wie recht er hatte! Mein Cicerone Hans-Georg Gadamer, in: Frankfurter Allgemeine Zeitung, 23.03.2002.

[3] J. Derrida Béliers. Le dialogue ininterrompu: entre deux infinis, le poème, Paris, Galilée, 2003. ancora non tradotta in italiano, ma i cui punti salienti sono trattati dalla Di Cesare in Utopia del comprendere, pp. 240-250; ed in D.Di Cesare,Ermeneutica della finitezza, op. cit., pp. 124-133

[4] Dialogue and Deconstruction. The Gadamer- Derrida Encounter, a cura di D. P. Michelfelder & E. Palmer, Suny Press, Lbany 1989.

[5] J.Derrida, Béliers, pag. 15

[6] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, pag. 239, in cui si riprendono le pagine 2 e 4 di J.Derrida, Béliers, op.cit.

[7] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, op.cit., pag. 241

[8] H.G.Gadamer, Chi sono io e chi sei tu? Su Paul Celan,trad. it.di F.Camera, Marietti, Genova 1989.

[9] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, op.cit., pag. 241

[10] H.G.Gaadamer, Ermeneutica sulle tracce, in  Gadamer, Verità e metodo 2 , pag. 370.

[11] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, op.cit., pag. 241

[12] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, op.cit 245

 

 

[13] [13] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, op.cit 244

 

[14] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, op.cit., pag.  246

 

[15] [15] D.Di Cesare, L’utopia del comprendere, op.cit

[16] Non è prescrizione…vedi precisazioni verità e metodo

[17] D.Di Cesare Manifesto, ricordiamo come in queto giornale quale venne pubblicato in Italia per la prima volta il discorso commemorativo di Derrida, cui D.Di Cesare si ispirò nei suoi lavori. (Cfr., D.Di Cesare, Utopia del comprendere; Id., Ermeneutica della finitezza).

[18] Ibidem

[19] Secondo il verso di F.De Andrè che nella canzone Giugno ’73, in Volume 8, 1975, scrive “Poi il resto viene sempre da sè/ i tuoi «Aiuto» saranno sempre salvati/io mi dico è stato meglio lasciarci/ che non esserci mai incontrati”. Qui occorre una precisazione. La ricerca della comprensione del proprio dire acquista un senso completamente diverso nella dialogica filosofica. Se nella prassi quotidiana rinunciare ad essere compresi può minare seriamente l’identità dell’individuo, dal momento che la coscienza ha bisogno di riconoscimento, nel campo filosofico sembra che chi “cerca” il vero, a quello solamente dovrebbe essere interessato, non curandosi del consenso o del  dissenso generato intorno alle sue opinioni. Tutto questo vale solo in linea di principio, a mio avviso, dal momento che se il filosofo non ha niente di più rispetto all’uomo comune, non è nemmeno giusto pensare abbia qualcosa di meno! Ritengo, pertanto, naturale che abbia pieno diritto al riconoscimento della cerchia di accademici con cui si misura, senza però che ciò si trasformi in quella che abbiamo chiamato provocatoriamente “nevrosi” del comprendere, o che forse dovrebbe più propriamente chiamarsi “nevrosi dell’essere compresi”, scorta in Gadamer. 

Chi mi perdonerà per aver dato del “nevrotico” a Gadamer, pur specificando di averlo fatto “affettuosamente”? É , per altro, Gadamer stesso, conscio delle difficoltà di dialogo tra diverse prospettive filosofiche, a dire: “Così, tranquillamente e pacificamente non possono andare le cose in filosofia, come se diverse direzioni di pensiero potessero stare semplicemente l’una accanto all’altra. Ognuno si richiama qui all’esperienza che tutti possiamo fare. Qui ci si dovrebbe poter intendere sulle divergenti opinioni con domande che esaminano e con risposte ben esaminate, in altre parole: con un dialogo critico. Così l’ermeneutico non dovrebbe certamente negare di sapere anch’egli qualcosa della dissémination, e riconoscerà anch’egli che questa è insita, tramite reminiscenze, allusioni e assonanze, in ogni discorso. Egli insisterà sul fatto che in ogni caso è posto con ciò un nuovo compito per il pensare, che ci invita a una nuova comprensione”. H. G. Gadamer, Ermeneutica sulle tracce, in Id., Verità e metodo 2, op. cit., pp.- 345-346.





2.    Interruzioni. Il viso non significa

 

“Decostruendo” il pensiero levinassiano, in quel saggio fondamentale che funge da sfondo di questa ricerca, ossia “Violenza e metafisica”, Derrida scrive: 

“Il viso non significa, non si presenta come un segno, ma si esprime, offrendosi di persona, in sé, καθ'αύτό: «La cosa in sé si esprime». Esprimersi, vuol dire essere dietro il segno. Ed essere dietro il segno non vuol dire essere prima di tutto in grado di assistere (al)la propria parola, di soccorrerla, secondo l’espressione del Fedro che ne assume la difesa contro Thot (o Ermes), espressione che Levinas fa sua più di una volta? Solo la parola viva, nella sua padronanza e nel suo magistero, può recare soccorso a se stessa, solo essa è espressione e non segno servile. A condizione che sia veramente parola, “la voce creatrice, non la voce complice che è sempre una schiava” (E.Jabès). E sappiamo che tutti gli dei della scrittura (Grecia, Egitto, Assiria, Babilonia) hanno lo statuto di dei ausiliari, segretari servili del grande dio, traghettatori lunari e scaltri che talvolta, ricorrendo a procedimenti infami, detronizzano il re degli dei. Lo scritto e l’opera, per Levinas, non sono espressioni, ma segni.”[1]

Senza poterci concedere un’intromissione nell’opera di Levinas, che pure sarebbe appropriata ed illuminante in un’indagine intorno al rapporto tra lógos e violenza, ci vorremmo soffermare brevemente ancora sul significato dell’”interruzione”, per mostrare come la lettura derridiana sia estremamente importante per sottolineare quello che riteniamo sia il punto decisivo in cui l’universale di Gadamer potrebbe, a nostro parere, essere criticato.

Dal punto di vista gadameriano, il confronto con l’altro mantiene una sorta di “privilegio”, che consiste nel potersi considerare, comunque, sempre ben disposti ad accogliere la differenza, perché interessati a cercare quella “verità della parola” che Gadamer ritiene possa accadere solamente nel colloquio.

In caso di “rottura”, questa prospettiva ci sembra non possa che aprire a due possibilità: o il sentirsi come il Platone della lettera VII, deluso e frustrato per aver conosciuto la fragilità del progetto di condivisione, oppure spingere ad insistere oltre misura, anche se si sospetta di non poter essere capiti, perché ciò che più conta è mantenersi fedeli alla verità (e se fosse solo la “propria”?).

Questo lavoro naturalmente intende indagare l’universale gadameriano, e se il pensiero del filosofo algerino abbiamo creduto potesse in parte correggere ciò che forse dal filosofo tedesco non poteva neppure essere “compreso”, non si potrà, comunque, indugiare ulteriormente sulle tematiche derridiane. Tuttavia, se riportiamo ancora, adesso, un passo di Derrida, è perché pensiamo che qui, pur venendo rimarcato “il primato della scrittura”, si renda chiaro come il confronto- improbabile o meno che sia- tra Gadamer e Derrida non possa  in alcun modo pretendere di terminare in un’assegnazione di uno dei due entro la sfera dei “meno violenti”, a discapito dell’altro. Il confine tra violenza e non –violenza, infatti, come si leggerà, “non passa tra la parola e la scrittura, ma all’interno di ognuna di esse”.

“Dopo il riferimento all’epekeina tes ousias, è questo almeno il secondo tema platonico di Totalità et Infini. Lo si ritrova anche in Nicola Cusano. «Quando l’operaio abbandona la sua opera, che continua poi il suo destino in modo indipendente, il verbo del professore è inseparabile dalla persona che lo proferisce». La critica dell’opera qui implicita distingue, almeno per questa volta, Hegel da Nicola Cusano.

Bisognerebbe affrontare questa problematica separatamente e di per se stessa. «Il discorso orale» è «il discorso nella sua pienezza»? lo scritto è solamente «linguaggio ridiventato segno»? O, in un altro senso, «parola attiva» in cui «mi allontano e vengo meno ai miei prodotti» che mi tradiscono invece di esprimermi? La «franchezza»dell’espressione sta essenzialmente dalla parte della parola viva per chi non è Dio? È un problema che indubbiamente non può aver senso per Levinas, il quale pensa il viso nella «somiglianza» tra l’uomo e Dio. L’altezza e la magistralità dell’insegnamento non stanno dalla parte della scrittura? Tutte le proposizioni di Levinas su questo argomento, non possono essere rovesciate? Per esempio, col dimostrare che la scrittura può essere d’aiuto a se stessa, perché ha il tempo e la libertà, in quanto sfugge le sollecitazioni dell’«economia»empirica, è per essenza più «metafisica» (nel senso di Levinas) di quanto non lo sia la parola? Che lo scrittore si allontana meglio, cioè si esprime meglio come altro, e si rivolge meglio all’altro di quanto non faccia l’uomo che parla? E che, in quanto si priva del godimento e degli effetti dei suoi segni, rinuncia meglio alla violenza? È vero che ha forse solo l’intenzione di moltiplicarli all’infinito e dimentica in tal modo – almeno – l’altro, l’infinitamente altro come morte, praticando così la scrittura come differenza ed economia della morte? Dunque il confine tra la violenza e la non-violenza forse non passa tra la parola e la scrittura, ma all’interno di ognuna di esse. La tematica della traccia (diversa, per Levinas, dall’effetto, dalla pista o dal segno che non hanno relazione con l’altro come assoluto invisibile), dovrebbe condurre ad una certa riabilitazione della scrittura. L’ «Egli» la cui trascendenza e la cui assenza generosa si annuncia irrevocabilmente nella traccia non è più agevolmente l’autore della scrittura che quello della parola? L’opera, la trans-economia, il dispendio puro quale Levinas lo determina non è né il gioco, né la morte. Non si confonde semplicemente né con la lettera né con la parola. Non è un segno e il suo concetto non si può fare corrispondere con esattezza al concetto di opera che si trova in Totalità et Infini. Levinas è quindi, ad un tempo, molto vicino e molto lontano da Nietzsche e da Bataille.

Blanchot esprime il suo disaccordo a proposito di questa priorità del discorso orale che assomiglia alla «tranquilla parola umanistica e socratica che ci avvicina colui che parla».”[2]  Parole che sembrerebbero quasi rivolte da Blanchot a Gadamer.

Se, dunque, non è nel rapporto oralità-scrittura, forse è nel modo di intendere l’interruzione, come sottolineato nel capitolo precedente, che si può meglio rintracciare il rapporto tra l’universalità ermeneutica e la violenza. Come scrive la Di Cesare: “Per delineare il confronto tra ermeneutica e decostruzione si può forse applicare un paradigma interpretativo che si è rivelato utile già per chiarire la questione del comprendere. E si può dire allora che l’ermeneutica comprende il comprendere a partire dall’unità del dialogo ininterrotto, la decostruzione a partire dalla differenza dell’interruzione. Unità e differenza ripropongono una volta di più, nell’ermeneutica e nella decostruzione, il segreto del loro vincolo, del loro elusivo rinvio. Tuttavia, se per l’esperienza disseminale la parola resta circoncisa, lascia aperta la ferita, la cesura, l’interruzione, per l’esperienza ermeneutica l’interruzione non può essere né originaria né ultima essendo la rupture che fende l’unità previa, la stella che squarcia una costellazione per prometterne una nuova. Così per l’ermeneutica l’interruzione segna l’inizio di un dialogo dove la frattura non verrà mai sanata, il non-comprendere non sarà mai eliminato. Ma pur sapendo ciò, ed esperendolo, l’ermeneutica si dispone ad un dialogo infinito o meglio –come ha suggerito Derrida -  poiché si tratta di un processo discontinuo, infinito e finito insieme, a un dialogo in-interrotto.”[3].

Tuttavia, temiamo che ciò valga “indiscriminatamente” forse solo nei confronti dell’approccio ermeneutico al testo, proprio in virtù della sua fissità, per quanto tale esattamente non sia (tradiremmo, sostenendo qualcosa del genere, il senso stesso della Wirkungsgeschichte gadameriana).

Quando leggo Hegel, ad esempio, davanti ad una rottura, derivata da un’incomprensione, può dirsi che sia io, in fondo, a decidere se allargare o restringere l’orizzonte in cui incontrare Hegel. Non c’è Hegel che mi parla se non presto ascolto ai suoi ragionamenti, sono io sola che leggo Hegel e lo faccio parlare, pur cercando di mantenermi fedele alla “Sache”, a ciò che dice Hegel, rispetto a cui è solo secondario, come insegna Gadamer, comprendere l’autore. Eppure fagocito necessariamente Hegel, lo violento, rielaborandolo secondo le mie personali intelaiature razionali, emotive, passionali, al punto che si potrebbe dire che Hegel non ci sia più. Eppure c’è. Ed io sono diventata un’altra persona grazie a questo incontro. E sono responsabile io sola dell’averlo ferito o meno, mentre le sue parole, affogate nella carta, aspettano che le comprenda, senza che il filosofo possa fare alcuno sforzo per soccorrermi nella comprensione. Sta interamente a me. E naturalmente qui si rintraccia il limite del cattivo interprete. Senza la parola di Hegel che venga a correggermi, in solitudine mi tormento con periodi hegeliani che non si intersecano adeguatamente con quanto finora ho immaginato fosse il tracciato dei suoi pensieri. E posso consumare il tormento in una guerra interiore in cui sono scudo e lama, fante, cavallo e tenda d’accampamento. Tutto è in me. Potrò leggere Hegel infinite volte, non risparmiandomi dal combattere, ma chi potrà dire se ho compreso sul serio qualcosa di Hegel? Forse posso tentare di scrollarmi la polvere della battaglia solo parlando di Hegel con qualcun altro. E vedere se il mio aggredirlo in quel modo è stato più efficace della maniera in cui un altro, mio contemporaneo in carne, ossa e voce squillante, lo ha affrontato. A quel punto soltanto, probabilmente, l’orizzonte che ho in comune con Hegel si può modulare. E le ferite c’è speranza che si cicatrizzino ed i caduti vengano degnamente seppelliti da mani pietose. Il colloquio vivente, dunque, nel corso del quale si tenta di raggiungere una comprensione sempre differente dell’interpretandum, fa sì che ciò che è superfluo si bandisca ed emerga, meno violentata, quella voce del testo che ci si affatica di cercare. E ciò accade anche nei discorsi filosofici tra amici, senza necessari riferimenti ai testi, perché i punti di vista si arricchiscono l’un l’altro e, se si affina ermeneuticamente la coscienza, è probabile davvero che ci si senta più vicini ad una certa familiarità, sia pure mai totale, con ciò che si cerca di intendere. Ma il dialogo con l’altro, quando non si tratta di un dialogo “filosofico”, è possibile che si affidi a questa “ininterruzione”, in cui la ricerca si arricchisce o impoverisce meno, a seconda che le private presupposizioni riescano ad entrare in circolo? Lì dove il “cosa” da cercare non nasce, spesso, che per caso, ed il “chi” non è affatto detto abbia una “coscienza ermeneutica”, come potremo sperare, pur cercando di mantenerci fedeli ai principi del circolo ermeneutico gadameriano[4], che da quel gioco, che per Gadamer è il linguaggio, non finiremo con l’essere giocati?

Nel momento in cui si tratta di “voler comprendere”- sia pure nel senso dell’eumeneia platonica- ciò che dice una persona, che continuamente muta, la situazione descritta da Gadamer, speranzoso- e forse anche “abituato” ad intessere preziosi dialoghi in comunità di stampo platonico nella sua adorata Heidelberg[5], - sembra non valere più “universalmente”. Questo lo si constata ogni giorno. Il miracolo della comprensione, lungi dal rappresentare una riedizione di un soggettivismo, dimentico dell’eguale storicità del soggetto interpretante e dell’oggetto interpretato e, perciò, rivendicante una superiorità sull’oggetto, è in questi casi, forse, ineliminabile. La rottura, il fallimento della comprensione, il conflitto, possono diventare la norma delle conversazioni quotidiane. L’ermeneutica, allora, inganna quando rivendica la propria universalità a partire dall’unità di teoria e prassi, “giocata” intorno al nesso tra linguaggio e comprensione, perché quel gioco infinito, mediale, che costringe a mantenere “la giusta distanza”, perseguibile solo con la ragionevolezza, ci “gioca” tutti?

Naturalmente non si vuole asserire questo, ma mettere in rilievo come l’universale gadameriano è probabile si rivolga ad uomini già ragionevoli. presupponendo che tutti i dialoganti siano già “ometti pacificati”. Si rivolge, dunque, ai filosofi, al punto che, radicalizzando questa “accusa”- se tale può considerarsi- potrebbe dirsi che l’ermeneutica filosofica di Gadamer sia tale, perchè ermeneutica dei filosofi, quella cioè, che solo in un consesso di individui desiderosi di portare avanti le loro ricerche per amore di verità può realizzarsi.

Le parole, nella vita quotidiana, non sempre tornano indietro, lasciando delle vallate tenebrose in cui nessuno ha più cura di ritornare a cercare il perduto. Il ritorno derridiano sulle proprie opinioni, da cui siamo partiti in questo capitolo, esprime il bisogno di recuperare il dialogo interrotto con Gadamer.

La comprensione, forse, semplicemente accade e si vanno elaborando continue interpretazioni che la inficiano o la potenziano, ma è sempre un evento, che potrebbe assomigliare più al tygein aristotelico, che ad un tentativo di mettere in circolo i propri pregiudizi, aspettando che dal lavoro fenomenologico si realizzi una smentita od una corroborazione di questi.

Quell’attesa è solo nel soggetto, che scalpita impaziente ed atterrito dal vedere come tutta la sua buona intenzione non possa bastare ad aver chiaro chi sia, cosa pensi, cosa effettivamente porti nel cuore e nella mente il soggetto, o i soggetti, che ha davanti.

È certo buona norma, secondo noi, mantenere un atteggiamento possibilistico e sicuramente se imparassimo da Gadamer avremmo una maggior fluidità nelle nostre conversazioni, perché la consapevolezza dei nostri limiti e la speranza che da ogni dialogo potremo essere trasformati, abbandonando i pregiudizi rivelatisi falsi, e, per questo, certamente arricchiti, sono certamente presupposti inalienabili di civile comunicazione.

Eppure, molto più spesso, direi tragicamente, quella fusione degli orizzonti, che è un fondamento essenziale della ermeneutica gadameriana, si rivela una dolce, dolcissima chimera, ma niente più che questo. Nel 1993, come ci racconta Grondin, Gadamer, in realtà, spiegò a Derrida che “l’orizzonte è qualcosa che non si raggiunge mai”. “Strutturalmente, mi sembra di poter riconoscere ad esempio aspetto del bagaglio concettuale di Derrida, come dissemination ed i suoi affini nella coscienza della determinazione storica, o différance nella fusione degli orizzonti”.[6]Con la sua ermeneutica generale- spiega Grondin- Gadamer non aveva proprio mai voluto afferrare che possiamo intendere tutto, bensì, al di sopra di tutto, che siamo esseri che cercano d’intendere e molto spesso falliscono in questo: siamo esposti all’intendere ed al senso proprio perché fondamentalmente ci mancano[7]

Per questa necessaria indecifrabilità con cui ogni soggetto è costretto a misurarsi, e non solamente per i limiti del linguaggio riconosciuti da Gadamer - che li osserva quasi ponendosi dalla parte del linguaggio stesso, lasciando così l’impressione che attribuisca al singolo la responsabilità di non essersi impegnato sufficientemente a ridurli- sarebbe più opportuno probabilmente pensare che si sperimenti l’incomunicabilità e ci si accorga come non sempre si possa davvero continuare a cercare di raggiungere “verità” nel dialogo.

Forse, dunque, proprio perché sia “buona economa” della violenza, proprio perché “il viso non significa”, e proprio perché esiste un’interruzione radicale del comprendere, che esautora il soggetto dalla possibilità di muovere egli stesso il comprendere, l’ermeneutica forse dovrebbe “impegnarsi” a tentare di acquisire una consapevolezza ulteriore intorno a quell’inesprimibile, irriducibile ad un fattore linguistico. E, in questo modo, contribuire a rendere l’uomo libero dalla nevrosi della comprensione (specie della propria), abituandolo ad accettare, a tollerare l’incomprensione.[8]

Gli appunti derridiani di Parigi, scomodi, urtanti, incapaci di mirare effettivamente a quanto detto, celando quindi più, forse, un desiderio di esternare il proprio astio, non curandosi di restare coerenti all’oggetto della conversazione, mancheranno anche di rispetto, ma segnano in modo inequivocabile il limite di ogni ermeneutica e di ogni impostazione di pensiero, che incorpori al suo interno la dialettica platonica, quasi cancellando la condizione illustrata magnificamente da Hegel, che garantisce il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza.

Il bisogno di affermarsi uccidendo l’altro, oltre che noi stessi, non può essere, a mio avviso, misconosciuto. Così, per quanto un’interruzione del dialogo faccia soffrire, non crediamo si debba disperare, restando quasi ossessionati dal perché non sia stata possibile la comprensione, pur avendo cercato di mostrare la massima disponibilità, come è quella che, certamente, mostrò Gadamer al reticente Derrida.

Quest’ultimo ebbe bisogno del “suo” tempo per chiarire la posizione dell’ “avversario” e non potè comunicare di aver in un certo senso “compreso” quanto il suo interlocutore avesse avuto intenzione di dire nel difendersi da accuse che, forse, Derrida stesso riconobbe poi persino illecite, quando Gadamer fu davvero impossibilitato a rispondere. Tutti facciamo esperienza di queste fratture. Come i dialoghi, sono anch’esse necessari “strumenti” perché si possa tentare la strada della comprensione. Ma non è possibile non riconoscere quanto non sia il soggetto a poter determinare il kairòs, il momento opportuno perché ci si comprenda. Pertanto è impossibile attribuire un primato logico all’intesa o alla frattura, che si situano nel comprendere a prescindere dall’arbitrio di colui che vive sforzandosi di comprendere. Ciò non intende trasformarsi in un invito alla rassegnazione, ma semmai a quella tolleranza che a volte passa per strade apparentemente “violente”, che, pure, finiscono con il risultare ottime econome di violenza.



[1] J.Derrida, Violenza e metafisica, in Id., La scrittura e la differenza, op.cit., pp-128

 

[2] Derrida qui riporta M.Blanchot, Connaissance de l’inconnu, in “Nouvelle Revue Française”, n. 108, dicembre 1961, pp. 1081-95, in Violenza e metafisica, op.cit., pag. 129, corsivo nostro. Per Derrida, comunque, ricordiamo come la scrittura, se “è solo  in Dio che la parola, come presenza come origine e orizzonte della scrittura si adempie senza scadimenti”, per un pensiero della finitezza originaria, “ se la scrittura è seconda, non c’è nulla tuttavia che venga prima di essa”. Ibidem, pag. 130.

[3] D.Di Cesare, Ermeneutica della finitezza, op. cit., pag. 96.

[4] Il più importante dei quali, non citato esplicitamente finora, ricordiamo essere il “presupposto della perfezione”, secondo cui si richiede che l’interprete, poichè non si può da lui pretendere nè  una neutralità impossibile, nè un oblio di sè, si apra all’alterità del testo, concedendo ad esso in anticipo una perfezione. Cfr., H.G.Gadamer, Verità e metodo, op.cit., pag. 316.

[5] Heidelberg, che, si sia concesso dire, anche per esperienza personale, sia comunque una sorta di “città bomboniera”, risparmiata persino dalle bombe americane nella Seconda guerra mondiale, presentandosi quasi come un’ oasi nel deserto delle circostanti macerie. E se pure Gadamer conobbe tanti orrori nella prima metà della sua lunga vita, fu nella cittadina del Baden-Württemberg, che, dal 1949, il filosofo tedesco condusse fino alla fine dei suoi anni un’esistenza fatta  anche di tantissimi viaggi, ma certo non in realtà in cui il dialogo sarebbe stato per diverse ragioni“impossibile”. E se è vero che “la vita determina la coscienza”, forse non è del tutto implausibile che anche il contesto heidelberghese abbia favorito il sorgere e lo sviluppo dell’ermeneutica.

[6] Incontro che Grondin dice si sia trattato di una conferenza di Gadamer, tenutasi il 17 novembre 1993 a Parigi, sul tema: Hermeneutik und Dekonstruktivismus, ancora non disponibile nell’edizione italiana.

[7] J.Grondin, Gadamer. Una biografia, op.cit, pag. 498

[8] Ma questo significherebbe negare l’ermeneutica stessa, che è “una prassi, l’arte del comprendere e del rendere comprensibile” , H.G.Gadamer, Autointerpretazione, in Id., Verità e metodo 2, op.cit., pag. 472. Per questo, in fondo, nelle nostre critiche intendiamo già segnalare un possibile avvicinamento della visione gadameriana con quella derridiana, che, più che accogliere i rilievi dell’una nell’altra, lasciando intatte le loro identità, spinga in direzione di una “fenomenologia del rifiuto”, come azzarderemo di motivare nel prossimo capitolo.

 

Commenti