LINGUA CAPITALISTA

 
Salvador Dalì, Ragazza alla finestra, 1925


Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose che sono dentro di me, mentre chi le ascolta, le assume col senso e il valore che hanno per sé, del mondo che egli ha dentro? Crediamo di intenderci; ma non ci intendiamo mai”  

Luigi Pirandello 


Mentre sprofondo nel mio enorme cuore solitario, ripenso all'incomprensione che avvolge ciascuna e ciascuno di noi.

Restiamo enigmi, attraversati da insensate brame di manifestazione di intimità che rimane inaccessibile.

Il mio groviglio interiore non sarà noto mai a nessuno e lo stesso varrà per i vostri.

 La mia disperazione nel sentirmi sempre indietro in ogni cosa, inadeguatissima, inutile e colpevole, di troppo e allo stesso tempo mai abbastanza, ad esempio, morirà inascoltata ed invisibile con me.

 Il solo colloquio profondo penso sia quello con la propria madre, che ci ha tenuto in grembo e ha uno speciale modo di capire ciò che cela la nostra carne.

Il linguaggio è nato nelle viscere. La lingua materna inizia prima ancora che si sia formato tutto il nostro corpo ed è anteriore ad ogni scoperta del mondo.

 E' attraverso l'idioma della mamma che iniziamo ad esistere, è grazie a quel particolare modo di intonare i discorsi o di stare in silenzio che adottiamo una maniera di dialogare con le persone, che caratterizzerà la nostra vita, distinguendola da quella di tutti gli altri.

Nelle parole ricche, intelligenti, sempre ben dosate e preziose di mia madre, personalmente ho trovato il mio varco per l'infinito.

La spinta inquieta alla perfezione, l'indecisione permanente, il dubbio che non si scrosta dalle ciglia e dalla lingua, il gioco che rompe l'angoscia in frammenti colorati e danzanti per tornare ad amare la libertà, anche se il prezzo alto da pagare è sempre quello di non riuscire ad obbedire neppure a me stessa.

Questo gorgo contraddittorio che sono si presta raramente a distensioni che durino intere ore. 

Sprofondo di frequente in momenti afasici e bui, per ritornare a cercare le parole sepolte nella lingua materna.

Penso avesse ragione Adriana Cavarero quando teorizzava l'impossibilità di un linguaggio non asessuato e dimostrava come la stessa lingua materna sia stata usurpata sul nascere alle donne:

La donna non ha un linguaggio suo ma piuttosto utilizza il linguaggio dell'altro. Essa non si autorappresenta nel linguaggio, ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei prodotte dall'uomo. Così la donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sè.

La lingua materna nella quale abbiamo imparato a parlare e a pensare è in effetti la lingua del padre. Non c'è una lingua materna poiché non c'è una lingua della donna. La nostra lingua è per noi una lingua straniera appresa non però per traduzione dalla nostra lingua. Eppure appunto non nostra, straniera, sospesa in una distanza che poggia sulla lingua mancante.

Adriana Cavarero, filosofa contemporanea tra le fondatrici de pensiero della differenza sessuale. Insegna filosofia politica all'Università di Verona.

Ciò che noi percepiamo in questa lingua straniera, che pure siamo e non possiamo non essere, è così la distanza che ci separa da essa, essa nella quale ci diciamo non dicendoci, essa nella quale ci troviamo, ma non ci ritroviamo. In questa distanza si conserva come possibilità la lingua mancante, un bisogno di traduzione che giace nella lingua straniera come desiderio di ritorno alla lingua tradotta, e tuttavia mancante, presente solo nella traduzione come un originale non perduto, ma piuttosto mai concesso."

Adriana Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, 1987



Ci sono parole che sgorgano da oscure, remote prigioni non per operazioni vittimistiche femminili, ma perché nella persistente, epocale oppressione esercitata sui nostri corpi e sulle nostre menti, non andrebbe mai dimenticato che la prima violenza è quella linguistica.

In maniera non strettamente consapevole, gli uomini hanno privato le donne di un linguaggio femminile e non ci sarà mai risarcimento possibile per questo perenne senso di spaesamento provato da ogni compagna sulla faccia della terra.

Il linguaggio non è neutrale.

Rifiutiamo il linguaggio che parla di potere, violenza, guerra e perversione.

Rifiutiamo il linguaggio che parla di cifre, numeri, prove muscolari, crescita economica e produzione dissennata.

Questa lingua capitalista appartiene ai padroni che non sentono più nulla e vivono avanzando contrapposizioni aberranti, promuovono gerarchie dell'umano e non hanno idea, né parole appropriate, per descrivere l'impegno e la cura, unici antidoti all'estinzione dell'umanità.

Vogliamo affermare una lingua materna, che sappia restituire dignità ad ogni dolore e lottare alla sua eliminazione. 

Abbiamo solo questo farmakon per ricomporre conflitti e risanare ferite che bruciano e sempre bruceranno se verranno proposte le solite parole fredde del capitale che consuma e non capisce, che ferisce e non riflette, che desidera solo affermarsi sulle ragioni dell'altro, costi quel che costi, senza fermarsi e sprofondare in un mistico moto di disapprovazione per tutto l'inferno creato anche grazie alle parole.

Cerchiamo una lingua anticapitalista, finalmente femminile, che possa salvarci dall'incomunicabilità e dallo strazio prodotto dall'assenza di vocaboli che non misureranno mai pienamente la realtà, ma saranno sempre indispensabili per tentare di guadagnare una prossimità con l'alterità e tutto ciò che si sforza di dire ( e anche di non dire).


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