IL PARADOSSO PALESTINESE


Una giostra in macerie a Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza, fotografata durante un cessate il fuoco, 26 luglio 2014  (MARCO LONGARI/AFP/Getty Images)


Questo post comincia con un'ammissione di sostanziale e colpevole ignoranza sulla questione palestinese e con la conseguente rivendicazione di colmare le lacune, tentando di approfondire, nei limiti del possibile, un argomento enorme, che in queste ultime ore si sta prestando alle più pericolose opere mistificanti e demagogiche, senza trovare nei media italiani il giusto, necessario spazio di riflessione attenta e lucida che, sola, potrebbe aiutare nella comprensione della catastrofe attuale. 

Le dinamiche riguardanti gli accadimenti dell'area medio orientale sono certamente complesse e, proprio per questo, rappresentano una sfida che ogni cittadina e cittadino europeo penso dovrebbe accettare, senza accontentarsi di impossibili e fuorvianti semplificazioni. 

Diffondere dati non basta. Ricucirli insieme tenendo sempre bene a mente il contesto in cui si propongono sarebbe già più onesto. 

Ed è per questo che, come ho già fatto ieri su facebook (mi ripeterò per chi mi ha già letto lì, scusate) segnalo anche qui la maratona di più di sei ore organizzata da Andrea Colamedici di Tlon dal titolo Ricomporre il conflitto, andata in diretta su facebook martedì 17 ottobre e che si può trovare registrata anche su youtube.

L'ho trovata una pregevolissima iniziativa che consente di affrontare la questione palestinese e le complesse ragioni del conflitto in corso, uscendo dalla logica della tifoseria, mantenendo salda la sempre più trascurata capacità di analisi e offrendo molteplici spunti di approfondimento, che, lo ripeto, sono necessari oggi più che mai.
Partiamo dal presupposto che criticare Israele non significa essere antisemiti!
Non ci sono gerarchie dell'umano possibile, l'empatia andrebbe mostrata anche a chi non ci assomiglia, come dice in un intervento Viola Carofalo.
Specie quando le palestinesi e i palestinesi che stanno morendo nella "prigione più grande del mondo" che è da anni Gaza ( e dal 7 ottobre muore un bambino ogni 15 minuti, i numeri purtroppo sono questi) sono già sfibrati da una guerra di resistenza antichissima, si trovano in una condizione di clamorosa inferiorità tecnico militare e privati della tutela di qualunque diritto fondamentale, persino di quelli basilari che vengono normalmente rispettati anche in guerra.
E lo sono perché mai fondamentalmente riconosciuti nel loro legittimo diritto ad autodeterminarsi, esistere e resistere ad un'occupazione iniziata quasi un secolo fa.
Questa "solidarietà selettiva" europea è la prima aberrante conseguenza di un sentimento di superiorità occidentale che si chiama, ci piaccia o no, razzismo. Di sicuro ORIENTALISMO.
E chiunque neghi le responsabilità europee in questo quadro di colonialismo violento che si sta compiendo con la cancellazione totale di Gaza, temo che prima o poi dovrà fare i conti con la sua sedicente umanità.
Nel frattempo, possiamo chiedere a gran voce l'intervento dell'ONU (anche se gli Stati Uniti hanno posto il loro veto alla richiesta di tregua umanitaria, segno evidente del fondo che stiamo toccando), manifestare la nostra vicinanza a Gaza finché non sarà vietato come in Francia o tacitato dagli algoritmi che consentono di nascondere o rendere meno visibili contenuti riguardanti la Palestina ( shadowban si chiama, non si smette mai d'imparare) e poi forse possiamo solamente studiare, ascoltare, cercare di redimerci dalla nostra colpevole ignoranza.

La sola cosa che non dobbiamo fare è cedere a comode semplificazioni demagogiche che non solo non possono restituire la multifattorialità della questione palestinese, ma cercano soprattutto di strumentalizzare il consenso europeo per perpetuare l'orrore.

L'intervento della maratona che forse mi sento più di tutti di consigliare è quello di Karem Rohana: Il processo di normalizzazione dell'orrore.
Karem Rohana nel suo intervento alla martona a partire dal minuto 4:27:52


Mi rendo conto che non sia facile ritagliarsi sei ore, per cui se proprio non ci riuscite, concedetevi almeno la mezzora in cui questo ragazzo di madre toscana e padre palestinese, attualmente bloccato a Gerusalemme, chiarisce perfettamente i motivi che hanno portato la questione palestinese ad essere così trascurata in Italia.
Leila Belhadj Mohamedd, editor e podcaster freelance


La ricostruzione eccellente di Leila Belhadj Mohamedd di tutti i passaggi territoriali che hanno configurato l'attuale geografia palestinese è, poi, indispensabile per capire da dove nasca il bisogno di reazione da parte del popolo oppresso da almeno 75 anni da uno stato occupante che, negli anni, si è fatto sempre più spregiudicatamente violento.
In un regime di apartheid non può esserci alcun interesse per una convivenza pacifica con i palestinesi ed Israele "si è ammalato di occupazione", appoggiato dagli Stati Uniti e nell'indifferenza generale dell'Europa al destino del popolo palestinese.
Questo è un fatto che non si può smentire in alcuna maniera.
Il punto di vista del popolo palestinese è stato completamente ignorato in Occidente.
Generazione dopo generazione, come dice il giornalista dell'intervento successivo a quello di Rohana, Christian Elia, i palestinesi hanno perduto fiducia nella comunità internazionale, nella diplomazia, negli accordi internazionali. Del resto, dice giustamente Elia,
"cosa ci aspettavamo che potesse nascere in una prigione a cielo aperto dove sono chiuse due milioni di persone dal 2007, anno del blocco?"

Questo processo di disumanizzazione si è sviluppato anche grazie alla nostra indifferenza europea, dobbiamo esserne consapevoli e dimostrarci pronti ad una redenzione, sempre che non sia troppo tardi per migliaia di innocenti che rischiano di rimanere numeri senza volto, poco interessanti, in fin dei conti poco reali.


Marco Longari, Case distrutte e sullo sfondo un minareto nel nord della Striscia di Gaza, 3 agosto 2014

Gaza



"Se tu hai 17 anni e sei nato nella striscia di Gaza, questa è l'unica condizione di vita che conosci e non è paragonabile a chi immagina di difendere un'idea di diritto internazionale.
Il diritto internazionale non è un orpello che possiamo decidere o meno di avere, è qualcosa che ci rende civili nelle relazioni tra esseri umani e quando qualcuno si vede disumanizzato fino a quel punto- e non possiamo pretendere di avere un criterio diverso di umanità verso chi si è sempre sentito trattato come un essere umano di serie B- (...)
non possiamo pretendere dal colonizzato che rispetti una sorta di soglia etica che decidiamo noi, sulla lotta per decolonizzarsi!"
Dice nel suo intervento Christian Elia.
E penso non si possa dargli per niente torto.

Questo non significa naturalmente in alcun modo che la violenza di Hamas vada incentivata, non fraintendetemi.
Ma bisognerà pur comprendere da dove nasca questo bisogno di liberazione, riflettere su quanti anni di ingiustizie, discriminazioni, crimini di guerra anche prima della guerra scoppiata il 7 ottobre, la popolazione palestinese abbia subito.
Concludo riportando un breve passo di Edward W. Said di un paragrafo il cui titolo ho utilizzato per questo post, che è tratto da "La questione palestinese" del 1992 ma sempre molto attuale:


Il problema di fondo dei palestinesi persiste, lungi dall'essere risolto, e la storia vi ha costruito attorno e moltiplicato in maniera sinistra i suoi paradossi. Come ho già avuto modo di affermare, i palestinesi vivono un destino del tutto particolare: sono stati perseguitati prima, ai tempi dell'insediamento coloniale sionista, perché presenti in Palestina e, successivamente, in quanto assenti dalla loro terra. Eppure, anche se reietti e considerati transnazionali, stranieri, non entità all'interno dello stato di Israele, sono stati riconosciuti come parte essenziale, o centrale, del problema del Medio Oriente. Nel 1974 più di cento paesi delle Nazioni Unite accettarono l'Olp come unico legittimo rappresentante del suo popolo; eppure, proprio quelle nazioni maggiormente coinvolte nel problema hanno continuato a rimettere in discussione non solo quella decisione, ma la stessa esistenza di un'identità palestinese. (...) E' infatti la semplice esistenza dei palestinesi, presenti ovunque ma senza un proprio paese, a essere vista dagli stati della regione come un problema che riguarda, e pesa su, tutti gli altri.
E ancora, il lessico concettuale usato per inquadrare i palestinesi e definire le questioni a essi connesse (e persino i termini usati per descriverli) è la prova dell'esistenza di un sistema efficiente e afasico, teso a schematizzare la loro realtà e a rendere i loro bisogni, la loro storia, cultura e vita politica, delle parole impronunciabili. Esempio tipico il fatto che in Occidente i palestinesi, secondo gli schemi israeliani- vengono subito associati al terrorismo. (...)
Per lo stato ebraico i palestinesi o sono dei "terroristi" oppure dei semplici dati essenzialmente non politici (perché non ebrei) che emergono dalle statistiche o, infine, sudditi docili e utili. Tra questi ultimi i circa 80mila pendolari palestinesi provenienti da Gaza o dalla Cisgiordania che soddisfano le necessità del mercato del lavoro israeliano, anche se si tratta di posti di bassa manovalanza da "tagliatori di legna e portatori d'acqua".

L'aggettivo "arabo" nel linguaggio corrente israeliano è così sinonimo di sporco, stupido e incompetente. Ogni altro paese responsabile di questo tipo di sfruttamento- apertamente basato sulla discriminazione razziale- verrebbe universalmente condannato dall'Occidente democratico e liberal, ma trattandosi di Israele, non solo viene assolto, ma persino portato come esempio.

Com'è possibile tutto ciò? La risposta è semplice. Lo stato ebraico è riuscito a chiudere i suoi occhi e quelli del mondo su ciò che è stato fatti ai palestinesi.

Ancor più grave è il fatto che un'intera falange di intellettuali e pensatori occidentali (per esempio quelle figure di spicco che si schierarono con Israele quando l'Unesco la condannò per le iniziative prese a Gerusalemme) esalta imprese i cui dati oscuri, in termini nazionali e umani, hanno rovinato l'esistenza di un intero popolo.

E.Said, La questione palestinese, pp. 218-220

Apriamo gli occhi!

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