SEGNO SCRITTO E VITA OFFESA

 

Il mio comodino 

Mentre apprendo della morte di Berlusconi e già si scatenano infiniti meme, slogan divertenti ("Nel dubbio aspetterei tre giorni" di Saudino ha già ricevuto il mio "like") e commenti a bruciapelo sulla fine di un'era (i cui effetti non credo affatto finiscano oggi), a me viene in mente solamente quella citazione attribuita per errore a Giorgio Gaber :

Non temo Berlusconi in sé. Temo Berlusconi in me 

(Gian Piero Alloisio)

Ecco, adesso che non c'è più, fare i conti con questa figura ingombrantissima della storia italiana sarà come ospitare un fantasma inquietante che ha influenzato profondamente tutte le nostre abitudini, condannandoci alla convivenza con la corruzione, con l'osceno, degradante patriarcato e la riduzione della figura del politico ad un essere comico e che per questa sua capacità di suscitare risa ottiene perdoni e condoni senza fine.

Spero non se ne faccia un Santo, perché non lo è stato per niente e se rimane intatta la pietà umana per la malattia che nemmeno tutti i soldi del mondo sono riusciti a guarire, non farò certamente parte del coro che già inizia a idolatrare la sua figura di statista brillante. 


Torno al post che stavo scrivendo, trascrivendo un'antichissima riflessione, risalente al mio tormentato periodo "accademico", quindi più di dieci anni fa, in era comunque berlusconiana.





Il passato è segno inerte che si fluidifica solo se lo riportiamo in vita noi. Ma cosa riportiamo in vita?

C’è in ciò che è statico la possibilità di non essere un sasso nascosto nella terra, ma di diventare “fenomeno” solo se non ci si rivolge astrattamente ad esso.

Solamente se ci si impegna a rivolgersi al passato come un "tu" e con amore sarà possibile recuperare la sua energia vitale, ricomponendo la frattura che lo spogliò di quella vita che è partecipazione, vedere ed essere visti, scrivere e lasciarsi leggere, che solo perché siamo nel mondo ha questa sorte e nessun’altra è e sarà mai concepibile.

La traccia torna a parlare, dunque, perché si instaura un rapporto intenso tra chi la osserva e ciò che essa nasconde. 

Decifrarne la natura è il compito che sceglie di caricare sulla sua coscienza l’osservatore studioso, fenomenologo che non potrà riconoscere quanta poca fenomenologia in realtà lo muoverà in quel lasciar essere il fenomeno scrutato, che vorrebbe portare avanti tutta la vita. Perché non può farlo che entrando in un illusorio dialogo, in cui la traccia sembra ogni tanto rispondere, ora sottraendosi, ora rivelandosi, ma mai facendosi pienamente ingerire dalla cavità pensante che la osserva con sfinimento e sofferenza.

Ignorarla è sempre possibile. Ma la traccia si fa amica, ossessione perpetua che, però, non ha un potere effettivo di violentare il suo curatore. È solo lui che può creare il male della traccia

La traccia è morta, non offende. Non può gridare e distruggere finché non voglia lui. E, poiché la vita non è solo amore e belle parole, ma conflitti, violenze, odii e guerre, se l’osservatore decide di interpretare qualcosa, deve essere preparato a riportare in vita anche gli aspetti più drammatici di essa.

E se sentirà dire qualcuno “è solo passato, non curartene”, proverà un moto di rabbia infinita per l’incomprensione attorno, ma dovrà capire quanta verità si nasconde in quella banale, superficiale affermazione.

Il bene ed il male del passato rinascono perché noi che li cerchiamo vogliamo riscoprirli. E quindi siamo costantemente inseriti in un processo di creazione pericoloso, dal quale uscirne dobbiamo ricordarci comunque sia sempre possibile.

Ben vengano le pause, i momenti di indifferenza per tutte quelle voci intrappolate sulla carta che pensiamo ci stiano urlando di aver un folle bisogno della nostra attenzione!

Non bisogna in alcun modo lasciarsene dominare. Loro hanno già la forza che nasce dall’immortalità che, consegnate alla carta, hanno saputo costituire. Sono più potenti, solo solo per questo. 

Allora, se rapporto non di subordinazione dovrà essere, il lettore deve riuscire a non farsi schiavo delle tracce cercate.

 Deve vivere di ricerca, ma non affogare in essa.

Perché ciò che rischia di dimenticare, lo si sa bene, è il vivo che è intorno a lui e non è giusto divenga rifiuto prima del tempo, di cui altri dovranno compiere ermeneutiche con meno competenza di noi.

Occorrerebbe amarsi qui, adesso, intrattenendosi quanto più possibile con quella dimensione passata sempre attiva, ma che abbiamo spesso il dovere di obliare, pena il non riuscire a visualizzare più nemmeno una briciola del nostro tempo.

La rigidità va combattuta in ogni campo. Passato, presente e futuro sono misteri che non possono lottare tra loro in cerca di un vincitore.

Signore del suo tempo è chi non esclude nessuno dei suoi poteri, non dimentica, cioè, almeno io penso così, quanto sia assolutamente importante rivolgersi al passato con lo stesso amore con cui si vuol curare il proprio presente, perché la tensione di apertura verso un futuro imperscrutabile, ma che non faccia troppa paura, non venga irrigidita da un procedere concentrato a recitare ataviche nevrosi, o eccessivamente leggero, fluttuante, tanto da non saper raccontar di sé che deboli momenti comuni e nessuna irripetibile esperienza significativa, capace di diventare forse persino esempio, un giorno, per chi l’ascolterà con attenzione.

È innegabile che l’approccio che guida chi si accosta a tracce tradite provenienti dal passato sia ben diverso da quello che si registra tra viventi, che ascoltano in un tempo comune le reciproche storie.

Quando ci si rivolge a ciò che non c’è più si deve per forza "inventare" con una presunzione che il cercare di comprendersi tra contemporanei conosce in misura minore.

C’è chi quella vita recepita la vuole ridare per amore, e chi la vuole solo per potersene accaparrare con violenza, sì. Per usarla per sé stesso. Ma è già un moto contrario alla natura, potremmo dire provocatoriamente, quella speranza di poter cancellare la morte che ha deciso solennemente che al non-ancora si sostituisse un “mai-più” definitivo.

Siamo già in accanimento terapeutico quando proviamo a leggere Platone, anche se lo facciamo con devozione e cura. Questo è ciò che vorrei per assurdo, adesso, sostenere.

E lo devo fare perché questa assai sciocca provocazione vuole mirare a farci rispondere a quella che ritengo sia la domanda originaria, da farci ogni qualvolta attraversiamo la soglia dell’Ateneo, ci introduciamo in biblioteca, accumuliamo idee e spunti da poter condividere in seminari o redigendo articoli e volumi che facciano circolare il sapere.

La domanda è: 

perché ci rivolgiamo al passato? 

Perché il presente non ci basta con i suoi guai e le sue problematiche? 

Perché non cediamo volentieri alla lucida, ragionevole osservazione di chi si adira con chi, anziché combattere le mostruosità dell’oggi, solletica la sua vena critica riesumando carte antiche, di chi non visse qui questi problemi e non potrà mai, pertanto, darci alcun valido monito se non biglie di elementare saggezza? 

Cosa cerchiamo?

 Speriamo che il futuro possa trovare delle soluzioni da recuperare da quei giorni ormai cristallizzati, che, proprio perché compiuti, offrono però anche il finale della storia, quel finale da cui prendere il condensato morale da poter riutilizzare per le nostre visioni profetiche?

 O perché è bello riempire le conversazioni citando episodi di secoli remoti per mostrare con quanta cura e abilità siamo capaci di ricordare la storia?

Il passato cosa è? 

Un contenitore che ci alletta dal momento che possiamo diventare più forti consultandolo come un archivio prezioso, perché la nostra storia è "magistra vitae" e così via?

Questa domanda, che resta solo un pungolo per le interpretazioni discordi che ne potrebbero derivare, è proprio quella che, centrale in altre epoche, oggi parrebbe non farsi più nessuno.

È come se si fosse sistematizzato anche il culto delle tracce. Da quando ermeneutica e decostruzione si sono insinuate nel patrimonio filosofico occidentale, probabilmente. E la ricerca sul senso della traccia orale o scritta sembra abbia occultato la domanda più radicale che sta alla base della stessa possibilità di instaurare un discorso intorno al segno inciso o fluido.

Perché rivolgerci al passato? Perché incuriosircene? Può la riflessione arrivare a dare una risposta?

Forse è solo il cuore. Perché dire che è perché siamo storici, seguendo intimamente Heidegger, mostrando la bellezza- qua faccio un po’ di campanilismo- della coscienza della determinatezza storica gadameriana, che supera i limiti della coscienza storica che osserva il passato sempre quasi a distanza, sentendosi incolume dalla storicità stessa, è comunque un ragionamento che può pervenire solo ad un livello molto poco incisivo, credo.

Solo sentirsi in un mondo carico di storia e desiderare scoprirne almeno alcuni frammenti per nessun’altra ragione che non sia appagare la sete di ieri, un PIACERE, dunque, credo possa fare da sfondo ad ogni ricerca compiuta e strutturalmente aperta che timidamente portiamo avanti.

Perché voler inseguire il passato, corteggiarlo, ispezionarlo come detective non pagati da nessuno e privi di specifiche missioni investigative che non siano quelle affidate da atenei in cui, senza impermeabili e lenti d’ingrandimento, finiamo con divorare pagine di autori seppelliti, che mai sapranno del nostro rigoroso modo di tenerli sotto torchio, quasi dovessimo presto rassicurare l’amante tradito in merito alla legittimità o meno dei suoi sospetti?

Se quest’attività investigativa non si accompagna ad un’accettazione totale dell’inafferrabilità che farà fallire anche il nostro incarico, ma sarà la più piena conferma di ciò che vogliamo scoprire qui, ossia la nostra limitatezza ... 

Beh, se non ci sarà questo rifiuto di voracità a nutrire il rigore e lavoro certosino di ogni ricercatore, penso che forniremo ancora un pessimo esempio a chi domani vorrà tornare a discutere con quel territorio non più calpestato, ma comprensibile a malapena attraverso le tracce lasciate da chi pensò prima di noi a ciò che sempre, continuamente, torniamo a pensare e penseranno coloro che verranno.

Il compito, insomma, è sempre ridare vita, si dice.

E se qualcuno si rifiuta, preferisce lasciarsi morire, abbiamo imparato come vada rispettato.

Non impazzire appresso a quello che sembra incomprensibile oltre ogni pazienza è ciò che voglio per me. Ma non giudicherò pazzo chi invece tenterà di dire la sua, meglio e con più umiltà, su ciò che io scelgo di non introdurre tra i vari sentieri interrotti nella mia vita di studiosa.

Ho scelto un autore bonario, che credeva nel dialogo e cercò di dire ciò che poteva nei colloqui. I suoi scritti, allora, parlano poco di lui, anche se sono traduzioni di ciò che disse molte delle sue opere. 


Ma io Gadamer non l’ho avuto come interlocutore. 

Mi sono spesso sentita qualcosa di strano addosso. Il suo occhio, il suo spirito, come se potessi anticipare ciò che avrebbe potuto dire, simulare la sua voce al posto mio per lasciare che mi spiegasse qualcosa. Ma ero io che lo muovevo come un burattino. Ed ho il dovere di ammettere che i fili ci sono e quel simpatico attore, in realtà, non sta agendo come avrebbe voluto, ma come voglio che si muova io.

Questo è il potere che, come all’artista, è dato anche al filosofo: Inventarsi il pensiero dell’autore che tratta, giacché non potrà mai che sporcare ogni volta la purezza che intende preservare. Perché ogni traccia è una traccia limitata.

Ma se, ritorno all’inizio, non si avrà l’accortezza di chiarire fin da subito come questa smania di farlo comunque recitare nasce da un amore per il passato che non si vuol lasciar morire per sempre e che, tuttavia, si sa necessariamente di dover sacrificare in moltissime sue parti, beh, se non c’è questa dichiarazione di intenti sulla sceneggiatura, lo spettacolo potrà rivelarsi crudele, un bagaglino osceno, in cui l’identità del protagonista, sia pur rimodellata dal burattinaio di continuo, non emerge con profondità, non più di quanto potrebbe fare qualsiasi soubrette dotata di un corpo seducente, ma nessuna capacità artistica.

Tratto da "Considerazioni inutili di universitaria grafomane", 2008




















Ecco i miei amici greci, tedeschi, francesi, polacchi e italiani che mi chiedono ogni tanto di tornare in vita.

 I romanzi sono disseminati in altra libreria e moltissimi sono stati prestati, lasciati nella casa natale, a volte anche sepolti in fotocopie tra la polvere dei miei quaderni universitari.

Lasciare che circoli il sapere è l'impegno, oltre la collezione capitalista dell'accumulo sfrenato di libri che spesso non arrivo neanche a leggere. 

A proposito, questa tendenza all'accumulazione nevrotica si chiama Tsundoku, dall'antico dialetto giapponese, e significa accumulare libri e lasciarli perdere per un po': https://www.wired.it/article/accumulare-libri-senza-leggerli-spiegazione-tsundoku/ 

Ma da questa malattia del capitale, non so se guarirò mai.

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