CAPITALIZZARE L' ATTENZIONE


  "L'attenzione è la forma più pura e più rara della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistano",  

Simone Weil, tratto da una lettera a Joe Bousquet, 1942

La straordinaria Simone Weil avvertiva già ottant'anni fa quanto fosse facile superare la soglia di attenzione necessaria ad entrare in contatto con l'Altro per perdersi nel nulla dell'incomprensione reciproca. Sapeva e confidava all'amico come fosse dote di pochi riuscire a non trascurare i vicini, dedicarsi ad essi con impegno, preoccupandosi genuinamente della loro felicità. 

Cosa vuol dire, infatti, "attenzione" se non questo? 

Vediamo un po'. 

Ho sempre l'impulso di partire dalla radice etimologica delle parole per cercare di avvicinarmi un po' meglio al loro senso e mettere in dubbio i miei pregiudizi intorno all'argomento. 

Attenzione viene dal latino attentio-onis, derivato di attendĕre che significa «rivolgere l’animo», lo stesso verbo di cui è traduzione il nostro "attendere" quando si riferisce, nella sua versione intransitiva, al preoccuparsi di svolgere faccende, applicarsi e interessarsi a qualcosa. 

Ma indica anche quell' attendere in maniera transitiva che ben conosciamo, quel tendere, cioè, verso qualcuno, rimanere ad aspettare che si palesi, che ci raggiunga, anche se non è detto che rispetti la puntualità. O che non sia un'attesa logorante e senza speranza come in un quadro di Hopper.




Dare attenzione a qualcuna/o, quindi, potrebbe significare aspettare che ci racconti di sé, rimanendo disponibili alla sua manifestazione, senza forzarla in alcun modo, come sto facendo invece io con questa interpretazione, filosofeggiando oltre il consentito.

Torniamo a Simone Weil.

Nel suo mondo, straziato dalla seconda guerra mondiale, è molto probabile che non fosse percepito come prioritario sforzarsi di raffinare la capacità di rivolgersi al prossimo in modo gratuito e sincero, interessato alla sua sorte, ma è certo che non sarebbe stato facile parlare di empatia dopo gli oltre sessantotto milioni di morti, i Lager, Hiroshima e Nagasaki.

La barbarie prodotta dalla guerra, dall'Olocausto, dall'applicazione scellerata della scienza e della tecnica per la distruzione dell'umanità, hanno senza alcun dubbio gettato le basi tragiche di quel profondo smarrimento del valore della vita umana che non si è ancora ritrovato, rendendo ancora oggi molto arduo parlare di rispetto e cura per il prossimo con un' onestà che non sia avvertita come mera retorica.

Quanta disumanità abbia iniziato a percorrere il tessuto sociale del mondo intero da allora e senza redenzione possibile perché, come sapeva bene Adorno, "Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura […] ma anche che tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura", è un motivo di riflessione che dovrebbe essere affrontata con coraggio e lucidità da qualche mente illuminata e sapiente che non è senz'altro la mia.

Io mi limiterò ad osservare banalmente come i meccanismi malati odierni che rendono spaventosamente difficile  rivolgersi all'altro sono, guarda un po', riflessi incondizionati della nostra era tardo capitalista.

Se ogni momento di attenzione dev'essere capitalizzato, ossia sfruttato da qualsiasi tipo di venditore per ingrossare il mercato globale, e se tutti si sforzano di capitalizzare l'attenzione altrui perché ne hanno bisogno e non più desiderio, come si può riuscire a spezzare l'incantesimo che lega l'atto della ricerca dell'alterità - fino a qualche decennio fa percepito come gratuito- al profitto?

La nostra attenzione si è piegata alle leggi del consumo: è labile, sottilissima, nervosa e infedele.

Non possiamo tener conto di tutto, del resto, né di tutti.

 La visione sarà sempre superficiale per quanto riguarda la maggior parte delle cose, che gestiremo con una conoscenza più tacita che approfondita, mentre una piccolissima porzione di esistenza soltanto sarà condotta grazie ad una più specifica consapevolezza, guadagnata con lo studio, con l'esperienza o con entrambe le cose.

Così è sempre stato, fa parte dei limiti umani invalicabili e guai a peccare di hybris pensando di potersi intendere alla perfezione di ogni campo dello scibile umano!

Tuttavia, disorientare, sovraccaricare, rendere inerti perché sovrastimolati è lo scopo invisibile del potere capitalista, che intende reprimere il nostro potenziale e lasciarci sudditi smidollati dell'era del consumo, incapaci di donare la nostra piena attenzione a qualsiasi oggetto di interesse. E anche a qualunque essere umano, mercificato e pronto ad essere gettato via non appena evapora l'interesse provato quando eravamo rimasti sulla soglia in sua attesa.

La fretta ci spinge a procedere continuamente oltre, non è dato sapere se verso il meglio o il peggio. Ciò che conta è accumulare e non fermarsi mai.

L'ingordigia e la compulsività sono tratti caratteristici del nostro tempo occidentale. 

La quiete è sempre più rara e spesso quasi temuta.

Storditi, ingozzati, rimuovendo il dolore, l'angoscia e la morte, procediamo dissennatamente verso l'abisso, stracarichi di orpelli superflui che non ci hanno procurato alcuna effettiva felicità, ma solamente distratto da ciò e da chi andava pensato, trattenuto, custodito dalla dissipazione.

Il troppo stroppia, si dice. E il troppo annienta davvero,  non lascia più nemmeno un briciolo di vigile attenzione per ritrovare l’essenziale. 

In un'intervista di ragazzi di terza media nel 1982, il grande Franco Fortini diceva: 

Proviamo a immaginare cosa succederebbe nella musica se ci fosse uno sciopero degli utenti, se i ragazzi diminuissero la quota d’acquisto di dischi, e dove ascoltavano una cosa una sola volta l’ascoltassero due, e dove due quattro, impegnando una maggiore attenzione, cioè ascoltando valutando cantando godendo di più. Su quello che ascoltano sarebbe una minore dissipazione. 
Secondo me, la linea di avvenire dell’igiene mentale passa attraverso la diminuzione delle sollecitazioni: meno immagini, meno parole, meno musiche, meno tutto. Inoltre una radicale distinzione tra attenzione e distrazione: vorrei che l’attenzione fosse più attenzione e la distrazione più distrazione. 
Distrazione vuol dire: voltare altrove, divértere (da cui viene la parola “divertimento”). Pascal diceva: “il divertimento conduce insensibilmente alla morte”. 

Non “i divertimenti”, il divertimento, cioè il meccanismo della distrazione, vale a dire l’incapacità dell’attenzione. 



 Jacob Cornelisz van Oostsanen, "Sciocco che ride" (1500-1510)

Qualora quasi trent’anni dopo, all’improvviso non potessimo più accedere con un clic a quintali di informazioni, non so cosa accadrebbe, ma credo che non ci farebbe affatto male digiunare un po' per rincorrere quelle “quote di silenzio” di cui parlava Fortini.

Solo grazie a momenti di pausa, distacco, silenzio e contemplazione è possibile formarsi e raffinare la capacità selettiva che consente di scegliere in maniera più accorta con quali nutrimenti intendiamo far fiorire la nostra spiritualità. 

E anche chi seguire (se proprio dobbiamo seguire qualcuno!).




Come scrivono Andrea Colamedici e Maura Gancitano in "Prendila con filosofia. Manuale di fioritura personale", HarperCollins 2021:

Stare sui social è come mangiare tutti i giorni a un all you can eat: se sai come orientarti e hai autocontrollo sopravvivi alla grande, ma se ti lasci guidare dalla pancia finisci male.
I post che leggi sono a tutti gli effetti un nutrimento che influenza moltissimo l'esistenza.
E il junk food- il cibo spazzatura- è il prodotto più diffuso in circolazione. C'è tanta roba buona sul web: il problema è che per arrivarci devi passare davanti alle patatine strafritte, al surimi dell'altroieri, a cibi non meglio identificati.

Sappi che nuocciono gravemente alla salute. Mangiare ogni giorno indignazione grossolana verso questo o quel cattivo e complimenti sperticati verso questa o quella brava persona fa male. Vanno molto di moda perché si consumano velocemente e lì per lì fanno sentire sazi, ma dopo cinque minuti hai di nuovo fame. E' una dieta disequilibrata, che porta a instupidirsi nel giro di pochi giorni e a pensare che il mondo sia diviso tra buoni e cattivi.
E invece il mondo è più grande, molto più grande di così.



Mi sono spesso domandata se non fossi un tipo ingordo che tende ad accumulare e confondere la quantità con la qualità in maniera irredimibile.
Devo lavorarci su, di guru è pieno il mondo e lo lascio fare agli altri.

Il troppo stroppia comunque veramente ed anche questo post è troppo lungo perché possa essere davvero stato letto fino a qui.

Grazie dell'attenzione!

Ad maiora!





Commenti