Antichi scorci filosofici senza misura


Immagini vere e immagini consolatrici.
Appunti per una comunità senza dolore.

È proprio del dolore non avere vergogna di ripetersi.”
Emil Cioran -

Qualche giorno fa, un noto regista, Peter Greenaway, in visita a Palazzo Barberini a Roma, ha provocato gli astanti ricordando una frase attribuita a Rembrandt: 
Se avete gli occhi non è detto che possiate vedere.

Central Exhibition Hall, Manege, Mosca



 Greenaway ha sostenuto che il cinema sia morto e abbia contribuito alla sua stessa fine, divaricando quella distanza dalle immagini che, abituati fin da piccoli ai testi, alle parole e ancora alle parole, gli occidentali non sarebbero in grado, a parere del regista, di avvicinare nel modo più giusto. 
Per questo non resterebbe oggi che la cinearte, un tentativo di recuperare la bellezza delle immagini della nostra tradizione e il cui potere rivoluzionario non è stato ancora adeguatamente riconosciuto.

 Non siamo tanto noi a interrogare l’arte, infatti, ma è l’arte stessa a interrogarci. 

Una ninfa nella foresta,
Charles Amable Lenoir.



E se le immagini si ripetono (pensiamo al phatosformel di Aby Warburg che studiò proprio quegli stilemi continuamente ripetuti e a cui facciamo riferimento in modo più o meno consapevole) rischiamo di rivederne d’atroci molto presto, proprio perché non siamo stati capaci di rispondere in tempo all’appello da esse rivolto.

 
Ma esiste sul serio un immaginario collettivo? 

E l’immaginazione, che è uno dei poteri più grandi dell’uomo, può veramente svolgere un ruolo essenziale per ripensare alla comunità? 
Può, insomma, l’immaginazione essere pensata, di nuovo, al potere, ma in una forma anti-istituzionale, che provenga dalla moltitudine come sua forza più specifica?

 Una disciplina dell’immaginazione è, per fortuna, impossibile, eppure il dislocarsi di immaginazioni solitarie non è detto che vada interpretato unicamente come un fattore disgregante della comunità.
 Una pluralità d’immagini non ha davvero alcun modo di diventare comune? E se sì, come?

 L’obiezione immediata è che il piacere della revêrie sia un piacere assoluto, il principio primo, in fondo, della separazione tra gli esseri umani che non accettano, infatti, alcuna interruzione da parte dell’altro, considerato quasi un ostacolo nel laboratorio immaginifico portato avanti dai sognatori. 

Ma l’interiorità che cerchiamo di custodire fuori dal verbo, consegnandola all’immagine segreta che nessuno potrà mai portarci via, può sul serio non essere condivisa?

 A me sembra che ciò che mettiamo in comune sia proprio il simbolico, quel fluido universo in cui scorrono in modo più o meno conscio le immagini alle quali ci sforziamo di cucire addosso parole per tentare di stare al discorso, che, dunque, è legato all’immagine in un modo che è stato indagato dalla filosofia solamente negli ultimi decenni. 

In “Tre saggi sull’immagine”, Nancy ha scritto, ad esempio, che “l’immagine pura è, nell’essere, il terremoto che apre la falla della presenza”.

 Come interpretare questa frase? 
Con quali immagini impure chiarirla?

    Conosco troppo poco Nancy, eppure, nel criticare la mimesis come semplice copia che finisce con l’assegnare all’immagine un carattere solo difettivo rispetto al reale, non mostrando, così, la sua straordinaria potenza che non può essere assimilabile a ciò che esperiamo e la cui compattezza opaca è dissolta dall’immagine stessa, mi sembra che il filosofo francese somigli molto a Gadamer, che ha cercato di rivendicare un’ontologia dell’immagine, capovolgendo il rapporto platonico tra Urbild e Abbild, ossia tra modello originario e immagine raffigurata

Nella prospettiva gadameriana, il modello originario perderebbe, infatti, la sua autorità e il suo peso perché nel rapportarsi all’immagine viene messo in crisi ogni dispositivo gerarchico ed estinta ogni sete di dominio, dal momento che è il gioco interpretativo ad accadere, conferendo vitalità all’immagine stessa.

 Esso si instaura in modo molto semplice e accessibile a tutti, perché ogni volta che un’opera d’arte si rivolge a chi l’osserva, non fa che chiedere la sua partecipazione-comprensione, il che fa scivolare in secondo piano la questione della sua fedeltà a un modello.

Sembrerebbe perciò necessario tornare a parlare di “verità” a proposito dell’immagine, se vogliamo discutere di una comunità che si guardi bene dal disfarsi in una pluralità senza volto, pur convivendo di continuo con elementi che la caratterizzano come qualunque, banale, stritolata dal profitto e dal bisogno, senza più capacità di generare avanguardie interessanti e indimenticabili. 

Perché non appaia troppo arduo indugiare su un legame tra immagine e comunità, occorrerà cominciare con una riflessione critica e attenta su fino a che punto l’una non debba sacrificare qualcosa di sé stessa per non ferire l’altra.

 Detto in altri termini, occorre innanzi tutto chiedersi se il proliferare di sentieri personali immaginifici sia costretto in qualche modo a modulare la sua eccedenza per non compromettere - ed estinguere - l’immagine stessa di comunità “solidale” cui, può dirsi, siamo stati abituati dalla tradizione catto-comunista, e, viceversa, quanto la comunità sia obbligata a sacrificare l’idea di un ordine che la plasmi per accogliere l’esuberanza che pertiene all’immagine. 

Occorre volgersi ancora al lògos, depotenziato, reso più bello e fantastico, per pensarci comuni? 
O è davvero più radicale, e non una semplice via di fuga, pensare oggi a una comunità di persone che non hanno paura delle proprie immagini e fantasie e del potere sovversivo insito in esse, anche se il prezzo pagato dovesse essere quello di un’incomunicabilità che non rende più prossimo l’altro, ma mio alieno, totalmente estraneo, irraggiungibile perché arroccato in una cruda realtà, senza quel manto che solo l’estetica sa donare ad essa? 

Può, insomma, il potere creativo offrire l’occasione che l’Occidente ha perduto per ricostruirsi più saggio e solidale o non è rischioso rinunciare all’idea di “appartenenza” sul terreno più immediatamente “logico-linguistico” ed eliminare qualsiasi elemento normativo, romanticizzando anche ciò che non accetta alcuna romanticheria perché è superfluo e crudele come il dolore mio e dell’altro[1]

Se non può bastare la distinzione tra un’immagine veritiera e un’immagine che tradisce la realtà, forse è perché - ed è questa la tesi che intendo avanzare - non si è dato ancora giusto peso al valore dell’immagine consolatrice. E cercherò di dimostrarlo con un esempio.


    Proviamo a immaginare adesso una situazione piuttosto consueta come la fine di un amore. E fingiamo d’avere accesso al processo cerebrale - fantastico della ragazza che si è appena lasciata e che, nel nostro fortunato caso, ha segnato qualcosa sul suo diario. Tra sé e sé, dunque, asciugate le lacrime, pensa-scrive-immagina più o meno così: 

“l’Assente è una minaccia ad ogni sorta di equilibrio che ci sforziamo di curare. È il monito all’allerta, ciò che costringe a rafforzare le difese e a rinunciare alla sciocca pretesa di poterne fabbricare di definitive. Moti dal basso, dall’alto, di lato. Ci troviamo immersi in un campo di forze e vettori. La gravità è il pensiero o l’amore? Lungi dal far fluttuare, sono entrambi capaci di ancorare l’esistenza a un manto di certezze che si sgretolano solo quando succede qualcosa di imprevisto. Bisogna avere sufficiente forza per reggere la verità intorno all’imperfezione umana. Specie se hai masticato per decenni studi riguardanti la possibilità dell’uomo di essere pari a un Dio. Allora accade che sia il pensiero che l’amore per l’altro non trovino più l’energia naturale con cui dare peso e resistenza alla tua vita. Si apre il conflitto. Violenza di immagini contraddittorie tese da un lato a garantirti la legittimità del tuo dubitare, dall’altro la potenza del tuo legame. Forse non è mai tanto nitida la certezza d’amare qualcuno che quando lo perdiamo. È una legge dello spirito umano. Il Bene si sottrae a una visione diretta e nella nostalgia di esso misuriamo gli effetti di quella grazia la cui intensità era celata quando praticavamo l’amore senza uscire dalla relazione. 
Non sono più ‘due’ ma non riesco a sentirmi ‘una’. Rimango indeterminato, in attesa di un limite che mi costringa a riprendere il giogo, combattendo questa liquidità che non assomiglia alla placenta materna, perché ormai ho una memoria martellante, che spezza il sogno d’ogni tranquillità.  Progetto grandiosi cambiamenti verificabili solo in un tempo personale. Ma la mia irrequietezza raramente si lascia trasformare in slancio. Io soffro la sua mancanza e il solo esercizio quotidiano che mi concedo miliardi di volte al giorno è il sollevamento del peso di un ricordo che ne svela un altro sotto, in una catena lunghissima che non ho alcuna voglia di spezzare, pena lo smarrimento dell’ultimo legame con chi, a sua volta fuori dalla relazione, si trova alle prese con la stessa assurda ginnastica del lutto amoroso. Mi sforzo di dare un nome al mio dolore ma non lo anniento. Le immagini sono troppe e parlano di tenerezza ineguagliabile, intesa, risate, progetti e complicità che parevano scontate fino a qualche tempo fa. E del terrore che ad averle sostanziate ci fossero la mia cecità e la mia inclinazione alla sottomissione”.


    Dove si nasconde la comunità?
 Quale potere consolatorio può offrire l’alterità quando si soffre?

    Quando ancora non esisteva una tematizzazione della soggettività, né una legislazione decisa a rimuovere le cause di soprusi e ingiustizie subite da cittadini considerati schiavi, privi di ogni tipo di diritto, ciò che era considerato “dolore” da parte degli uomini liberi, lungi dall’essere legato a questioni meramente materiali, non poteva essere concepito però nemmeno come un moto originario dell’anima. 

Il dolore era più che altro un flusso negativo, nato dall’incontro nel mondo con qualcosa o qualcuno non immediatamente accettabile (un cibo cattivo, un raffreddore o una situazione generatrice di controversie) che poi poteva o semplicemente attraversare il corpo oppure imprimere una sensazione sgradevole all’organismo, senza che l’anima ne serbasse ricordo duraturo, perché ciò che contava era restare nella comunità.

 Il dolore dell’anima è probabile che si trasformasse in lieve follia, estinguibile nella catarsi tragica, in una dimensione collettiva, dunque, com’era il teatro greco.

 Nessun isolamento, nessun voltare le spalle alla comunità era previsto in Grecia, neppure per i disperati. 

Eppure, questo uomo greco “libero”, che sa di doversi riconoscere limitato eppure fa di tutto per attestare la sua autonomia, non è improbabile sia stato un uomo già denso di conflitti che il “conosci te stesso, ma fallo dialogando in comunità che è meglio” non riesce sul serio a rimuovere.

 Il mito dell’invulnerabilità è del tutto estraneo nell’ermeneutica di un pensatore come Hans Georg Gadamer, per il quale, tutto sommato, ciò che conta davvero è prendere consapevolezza dei limiti e abitare quanto più intensamente la soglia stessa tra Heimlich e Unheimlich, senza potersi mai decidere per una piena familiarità o una totale estraneità sia con se stessi che con gli altri e il mondo intero che ci circonda. 

Il compito del lògos di fronte al dolore che emergerebbe soprattutto nel Filebo platonico, invece, sembra essere proprio quello dell’autarchia.

 Come il cosmo resta misteriosamente in equilibrio bilanciando le sue forze, così anche l’uomo deve riuscire a garantirsi la “giusta misura” che preservi la sua salute e renda possibile un’armonica condotta dell’esistenza. 

La paidèia greca mira a una pienezza d’essere che esclude ogni eccesso e difetto e nel Filebo è proprio di questa imperturbabilità che Platone si rende virtuoso interprete, giustificando ontologicamente perché sia indispensabile contenere l’àpeiron e desistere dalla tentazione tanto di fare del piacere il principio d’eternità, quanto d’accentuare la carica tragica del dolore umano, quel pàthei màthos eschileo che diventerà così essenziale, invece, nell’esperienza ermeneutica.

 Eppure la “visione”platonica non è quella di una vita come malattia che va curata somministrando adeguatamente le dosi, escludendo tutto il “poter essere”, considerato nocivo perché capace di far vacillare l’ordine comunitario.

La vita umana appartiene al genere della mescolanza di finitezza e infinitezza[2], e il pericolo di non cogliere la giusta misura (il mètrion) e formulare bizzarre connessioni può tradursi in un danno irreparabile per l’intera esistenza: restare a navigare nell’indeterminato, in quel regno oscuro dove la ragione non può rendere conto più di nulla perché superflua. 

  Il suggerimento platonico è, perciò, inseguire, per quanto concesso all’uomo, la via dell’impassibilità, quello stato in cui ci si ritrova quando si contemplano le forme pure e immobili.
 Il vero saggio è, idealmente, chi sa scegliere in modo prudente quanti e quali piaceri e dolori accogliere nella propria esistenza, ma Platone sa bene che non è possibile creare sempre una distanza da ciò che ci coinvolge tale da consentirci di abbandonarlo o ridimensionarne la potenza. 

Solo dopo aver letto tante volte il Filebo, si scopre che ciò che Platone ha rappresentato nel suo dialogo non è una vita staticamente misurata e capace di arginare l’eccesso che riguarda il caos, perché l’apeiron non può essere estinto del tutto.

 Se Aristotele sarà animato dal desiderio di scovare nell’uomo un essere speciale rispetto a tutte le altre forme di vita, proprio perché ha il logos, a Platone non verrà mai in mente che parlare e discutere possano bastare a sedare l’indole violenta e dispersiva dell’uomo. 

Questa è la fatica dell’uomo virtuoso, buon cittadino, di cui Atene ha bisogno per difendersi dai pericoli della sofistica. Il criterio per accoglierlo nella polis non esclude, pertanto, in via di principio, chi non si mostra immediatamente pronto e capace di articolare linguisticamente i suoi pensieri intorno a ciò che prova, stravolgendo il suo comprendere sotto il peso delle passioni. 

Ma la lezione socratica non può essere elusa. Per sapere qualcosa su se stessi, occorre cercare il Bene. E si sa qualcosa sul Bene quando si sa di non sapere ancora nulla su sé stessi, eccetto di non essere Dei e non poter sapere perciò che molto poco e avere, per questo, bisogno e desiderio dell’altro. 

La dialettica-dialogica diventa, così, il solo modo concesso per districare i grovigli esistenziali e mirare con instancabile pazienza al kosmos che si erge solidamente sulle macerie di quel modo disordinato di accedere all’essere, che appartiene ai sofisti. 

Sono i loro discorsi, infatti, a generare la confusione più pericolosa, ossia il finire con il considerare l’essere identico al nome, e non qualcosa che, proprio per la sua indisponibilità, sia necessario interrogare di continuo senza pretesa di possederlo stabilmente. 


La filosofia nasce, perciò, contro il terrore della reificazione dell’essere, della resa a objectum di ciò che va sfregato di continuo in una comunità di ricerca e non si può che fiutare[3], sentire, cioè, che sta per balenare qualcosa di decisivo, soltanto un attimo prima che si nasconda di nuovo, com’è la verità. 

Niente di strano, dunque, se si immagina che la strada segnata da Platone sia quella di un equilibrio dinamico che pare non abbia altro interesse primario che quello di conservare e non creare nuovi itinerari possibili, incidendo attivamente nel reale. 

Difficile è non scorgere in Platone, pertanto, una rassegnazione profonda, che percorrerebbe il Filebo tanto quanto la Lettera Settima, davanti all’idea che, lungi dall’essere “razionali”, gli esseri umani siano profondamente tentati dal disperdersi nel caos e occorra perciò ricordare la forza della dialogica promossa da Socrate, uomo smisurato nell’assecondare un métrion che non poteva essere misurato in alcun modo dagli altri, ma che finì con l’accettare comunque la giustizia della comunità corrotta nella quale visse e trascorse la sua esistenza fino alla morte.


    La “misura” che Gadamer reperisce nel Filebo platonico assurge perciò a principio ontologico che scalza per potenza tanto l’ipertrofia dell’identità che confida nella sua “ragione” totalitaria, quanto l’incommensurabile dono costituito dalla stessa alterità, perché riesce a mostrare il meccanismo nel suo complesso, cogliendo come egualmente necessarie le posizioni, dell’io e del tu, senza permanere nella relazione, che può trasformarsi facilmente in conflitto duale. 

Nel Filebo, infatti, assume valore essenziale la reciprocità che rende l’esistenza simile a un percorso in un labirinto di specchi (gli altri) che rinviano, volta per volta diversamente, un’immagine (e quindi una pluralità di immagini) di ciò che siamo e alla quale non potremmo mai attingere restando fedeli a un principio solipsistico, frutto della modernità. 

Questo impianto non implica una costitutiva apertura alla comunità, ma, al contrario, nasce unicamente se si considera la comunità stessa come originaria

Ciascuno è quello che è, solo in un orizzonte condiviso. 

Identità e differenza sono tali, cioè, unicamente a partire da una cornice plurale che consente di comprendersi vicendevolmente e comprendere sé stessi, impedendo, però, che si possa rinunciare al vincolo comunitario. Bisognerà, certo, domandarsi se il rischio che una comunità così pensata non sia, in fondo, il preludio di quella pluralità anonima che conosciamo oggi, di specchi, cioè, poco interessanti perché omogeneizzati da una ricerca fin troppo simile e perciò più rapidamente sorvegliabili da un Potere dispotico, la cui ragione di vita è sopprimere le potenzialità dei molti cui si dirige, proprio per non essere destituito.


 Tuttavia, i veri uomini “liberi” cui pensa Platone
 in memoria di Socrate non hanno bisogno 
di nessun potere esterno:
 la legge morale è inscritta nelle loro viscere
 e sanno vedere nell’altro sempre un fine,
 anche senza temere alcuna punizione.
 Essi sanno stare al gioco senza barare, 
perché ciò che li lega non è interesse, ma l’amore per la verità[4]

   La loro alleanza è unicamente questa, il che significa che la comunità nasce prima di ogni singolo e il suo compito rimane quello di avvicinarsi al vero, quel terzo che fa da garante alle diverse posizioni che si confrontano in un orizzonte naturalmente condiviso. 

Fedele a Platone e alla tradizione greca originata da Socrate e capace di accogliere e far propria la lettura heideggeriana dell’aletheia come evento applicandola alla stessa prassi linguistica, Gadamer restituisce alla verità una posizione centrale che richiama Platone nel suo pensare la misura come qualcosa che non viene posta da nessun uomo, ma non è per questo separata e indifferente alla prassi. Trascendente rispetto a quest’ultima, ma, al contempo, senza separazione perché ancorata tenacemente alla fatticità, nella comunità platonica la verità si dà e offre a chiunque la sappia guardare. 

Essa si manifesta, infatti, in ciò che è più visibile o fulmineo, come il bello o come un’intesa raggiunta a fatica con chi la pensa diversamente e costringe a mettersi in discussione e attraversare tante difficoltà fino a lasciare che dilegui il dubbio sulla capacità di chiarirsi e baleni quell’istante di pura gioia che si ha nel contemplare insieme ciò che è e scoprire come una certa distanza tra noi e le cose e tra noi e gli altri sia auspicabile che si conservi.


    Questa faticosa, e spesso impossibile, “giusta distanza” assomiglia a quella intesa anche da Rilke quando nelle Lettere scrive:

Una volta accettata la consapevolezza che anche fra gli esseri umani più vicini continuano a esistere distanze infinite, si può evolvere una meravigliosa vita fianco a fianco, se quegli esseri riescono ad amare questa distanza tra loro, che rende possibile a ciascuno dei due di vedere l’altro, nella sua interezza, stagliato contro il cielo.[5]

Quando la fede nella comunità si perde o sfuma sostanzialmente, com’è accaduto in Occidente soprattutto nel secolo scorso dopo la fine delle guerre mondiali, la stessa concezione del dolore subisce un mutamento sostanziale. 

Essa viene dibattuta in gruppi di aiuto-aiuto, piccole comunità terapeutiche, spesso con finalità disinteressate al profitto, frutto di studi eccellenti di bravi psichiatri che hanno segnato la storia della medicina. 

Progressivamente, però, la stessa storia della terapia sembra adattarsi alle leggi di mercato, cosicché il dolore viene discusso e diventa oggetto di studi sempre più complessi non perché esso sia pericoloso per la pace della comunità, ma perché può essere una merce utile in cui investire e da cui trarre numerosi guadagni nel tentacolare e inesorabile gioco di potere che regola gli scambi sociali. 

Lo sfruttamento del dolore del prossimo ha orripilato la filosofia al punto da convincere molti studiosi a convertirsi nelle figure dei consulenti, richiedenti solo un piccolo compenso per aiutare il paziente a trovare in sé vie razionali capaci di liberarlo dalla sofferenza. 

Ma adesso? Quanti sono i guariti in virtù della virtù? Sarebbe interessante chiederlo.


    Nessuno può costringerti a stare al discorso se non vuoi. 

Lo sapeva Platone, che infatti abbandonò i siracusani dopo diversi tentativi e lasciava lo stesso Filebo, inguaribile edonista, seduto inclinato, mentre portava avanti le sue finzioni letterario-filosofiche sulla vita buona, finzioni che sapeva non potevano che essere condotte mettendo a tacere, almeno nell’armonia della scrittura dialogica, un ostacolo temibilissimo capace di rinfacciare di continuo l’inconsistenza di tali visioni volte al giusto, al bene e al vero. 

Queste visioni (immagini), infatti, restano giustificabili unicamente nel recinto della ragione dialettica, entro il quale nessuno assicura vengano effettivamente scrutati, mentre magari Filebo si trattiene dal dolore e conosce il piacere, proprio per la sua mancata partecipazione al faticoso gioco filosofico. In questo, infatti, non è prevista alcun’educazione effettiva al raggiungimento del piacere[6].


     Il piacere non sempre si attinge discutendo e il dolore non sempre svanisce parlando. La distanza resta ed è necessaria per vedere l’altro “nella sua interezza, stagliato contro il cielo”, ma la parola può essere una buona terapia, l’inizio, per dir così, di un processo faticoso che deve vedere coinvolto attivamente il soggetto che patisce, deciso a fare chiarezza razionalmente sulle cause del suo dolore, perché pronto a non attribuire ad altri responsabilità che sono unicamente sue e determinato a non confondere, semmai, evidenti segni di sopraffazione fisica e morale con determinati servizi fatti per amore o per “dovere”.


     Se un simile cercare dialetticamente le cause del dolore non avviene grazie a un’altra voce, un altro punto di vista, il dolore cresce e può originare delle meravigliose attitudini letterarie, diversamente poco probabili. Forse per questo, spesso e volentieri, oggi si diventa scrittori e artisti infrangendo il tessuto della lingua e della comunità stessa, cercando di rimuovere l’istinto al suicidio per assorbirlo in vie di fuga estetiche. 

L’aisthesis viene, cioè, solo differita, il dolore preso come un fagotto di cui osservare le varie pieghe, ma senza decomporlo sul serio mai. Continua ad abitare in chi ha buona memoria, perché ogni volta avrà la possibilità di ritornare nuovamente su quelle crepe oscure del suo vivere interiore che non sono percepibili esteriormente, come sa Hegel[7]. Ma che ci sono. 


Cosa ci spetta allora oggi? Attraversare il mondo portandoci appresso il nostro “con” senza avere pretesa che immagini catastrofiche e sublimi debbano essere mediate e composte in una visione teleologicamente forte che mira al bene della comunità intera e rassegnarci, perciò, al “caso”che le distribuisce in modo ciclico a chiunque in tutta la loro varietà;

 o dobbiamo sforzarci di concepire la comunità in chiave utopica come ciò che, anche se elaborato volta per volta, non è un placido sogno che non è in grado di realizzarsi, ma è un sogno che toglie il sonno e ci costringe a restare vigili e pazienti nel credere possibile che si dia una immagine di felicità per ogni componente della comunità, incluse le piante, gli animali e le pietre?


 Oggi che siamo diventati quasi incapaci di conversare e abbiamo troppo spesso la nausea di discussioni sfibranti che non raggiungono nessun’intesa e non lasciano niente di nuovo nella nostra mente sempre distratta da nuovi argomenti e occasioni per non pensare in modo radicale all’essenziale, può dirsi che sia un soliloquio in compagnia ma non una comunità la nostra. 

Noi viviamo d’occasioni mancate, parole non dette, espressioni ambigue, silenzi oscuri e barbare assenze. 

Non abbiamo forse più da chiederci nulla, tutto si è sottratto e ormai saturato nel nostro pensare e vivere lontani da un centro in comune. Non sentiamo in comune più nemmeno la città. 

Ma non è il niente in comune di Nancy. 
La nostra distanza è siderale e non con-sideriamo più nulla insieme in essa, eccetto che in sporadiche occasioni. Il distacco nel nostro caso non è scaturigine di ricerca comune, ma solo di fuga, dispersione, abbandono sempre più drastico. Il niente che vuole niente.
”Come pietre”.


    Tentare di riabilitare quella comunità che animò lo sforzo platonico rivolto a uomini liberi e possidenti e mostrare la sua precedenza ontologica potrebbe non cambiare sostanzialmente le cose. 

Platone, in fondo, aveva nostalgia di ciò che aveva visto, ma non possiamo cercare nelle forme perfette, immacolate e pure la chiave per proporre una comunità. 

Nessuno può, cioè, oggi pensare d’aver visto meglio o più degli altri. 

Platone, tuttavia, ha dato origine a un’utopia che ci condiziona ancora, perché si rivolge al Bene di un’intera comunità. 
E se, come scrive nel Filebo, questo Bene si rifugia nel bello, allora interrogare questo Platone riconoscendolo come non “idealista”, ma, al contrario, capace di pensare a una trascendenza non separata, non assoluta nel senso dell’essere sciolta dal legame con il concreto, può essere stimolante ancora oggi, dal momento che ciò che è bello si manifesta ed è visibile a tutti.


     L’utopia ha dunque la forza di contrastare le derive moderne perché rimane dritta di fronte al rischio della perdita, giudicata irreparabile, della comunità, e perennemente avversa, perciò, alla tendenza liberale che spinge a disfarsi di qualunque legame senza soffrire profondamente, come avviene non solo a chi si nutre di premesse greche e quindi fa della comunità la sua più naturale inclinazione, ma a chiunque sappia ancora condursi sulle vie dell’amore e sentire che, anche se la simbiosi è una chimera, su questa terra non esiste né esisterà mai nessun isolamento ma solo un’apertura all’altro, che è sempre accesso a un altro mondo che distrugge la stabilità precaria del mio, così da ricordarmi l’originarietà del “Con”.


Per questo motivo, chiunque non voglia assimilarsi interamente alle pietre penso abbia il dovere di cercare immagini che consolino chi soffre al punto da non avere più né parole né fantasia, scavando nell’interiorità da cui far zampillare quell’imprevisto che riesce inaspettatamente a curare anche meglio del discorso dialettico per via della sua intensità, che si affranca da ogni arida logicità. 

Che non sia l’eclissi della Ragione e l’albeggiare conseguente d’un sentiero fitto di metafore e immagini consolatrici per tutti gli “elementi scagliati al margine” della comunità globale il nuovo manifesto che attende d’essere scritto da ogni filosofia che, partendo da un’immagine solitaria e tornando a una condivisa, voglia cercare “la rosa nella croce del presente”? [8] 

Sfuggire alla comprensione dell’altro o, magari, di una maggioranza che coltiva “tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie”[9] è l’atteggiamento più naturale inseguito da quanti non pretendono più alcuna consolazione. 
E accettano di diventare note stonate di un improbabile coro in cui ci si può curare a stento di chi procede diversamente.
 La dissonanza, in fondo, nasce da una misura impossibile di fronte alla violenza inaudita della vita. 
Per questo, un logos che esclude la violenza e indaga principalmente con le parole e il corretto ragionamento solo il bene, il compiuto, il perfetto, il piacevole, sarà costretto a dimenticare la realtà disperata che non può essere ricomposta nel linguaggio, restando cieco di fronte alla fatica che costringe ogni essere umano a sperimentare l’abbrutimento e l’alienazione, lo scoramento e un mal di vivere che risulta esiliato dalle pagine di tanti celebri pensatori. 
Non tutti i dolori si possono infatti misurare e ci sono tragedie, ben più gravi del lutto amoroso a cui ci siamo riferiti sopra, che non concedono alcuna razionalizzazione. 
Di quale capacità di affrontare il dolore può farsi carico oggi il pensiero, se non avrà prima riconosciuto fino in fondo la limitatezza della ragione e scovato anche nell’immaginazione un valido alleato perché la filosofia non sia avulsa dall’esistenza, ma un tenace, seppur destinato a restare aporetico, tentativo di dare senso a ciò che, anche nella più cocente delusione, continua a chiedere senso?

     Chiudiamo gli occhi e proviamo a vedere meglio, cioè a immaginare

Note:
[1] “Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio.
 Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria”.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo 1952) e anche: 
“Tanti sono morti disperati. E questi hanno sofferto più di Cristo. 
Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente”, Ibidem.
[2]“Tutto ciò che è, è un misto di determinato ed indeterminato”, 
scrive Gadamer nell’Etica dialettica. Interpretazioni fenomenologiche del Filebo.
[3] Il nous non era altro, originariamente, che il fiutare dell’animale selvatico.
[4] “Ora non ci importa gareggiare sulla questione che ho posto per vedere
 se vincerà la mia o la tua tesi, ma dobbiamo noi due allearci alla più pura verità”, Filebo, 14 b.
[5] R.Maria Rilke, Lettere.
[6] “Il saggio cerca di raggiungere l’assenza di dolore, non il piacere”, 
scrive Aristotele nel IV libro dell’Etica Nicomachea.
[7] “Le ferite dello spirito non lasciano cicatrici.”

[8] Hegel.
[9] F.De Andrè, Smisurata preghiera.
Pubblicato nell'aprile 2013 su 

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