Rhythm, Joie de Vivre, Robert Delaunay |
La pandemia ha destrutturato in modo netto il nostro tradizionale approccio all’esistenza, lasciandoci addosso paure, ansie e consapevolezza della estrema fragilità dell’essere umano.
Un
microscopico virus ci ha messo totalmente a tappeto. Sono morte milioni di
persone e ancora ne stanno morendo.
E adesso?
Tutte le cose belle che abbiamo visto prima dove sono finite?
Possiamo tornare ad abitare il mondo poeticamente, cercando con irrequietezza, ma anche tanto stupore benevolo e trasognato, qualche straccio di senso, che possa consentire alla nostra vita di procedere con una vaga parentela con il divino?
O dobbiamo dimenticarci per sempre di questa possibilità di trascendenza e fare i conti ancora solamente con i “casi”, i fattori di contagio, i rischi, i focolai non domestici...
La nostra medicalizzata coscienza, insomma, può tornare a sentirsi libera da questi lacci angoscianti che ci condannano ad essere numeri senza nome, identità, gusti, interessi particolari e tic che ci rendono inconfondibili, pezzi unici di carne, ossa talvolta doloranti e memoria spesso traballante, che vagano inquieti sulla terra, in cerca di orizzonti di senso che possono tornare a sorprendere?
C'è, in definitiva, ancora spazio per l’umano nel “post-” pandemia?
O è scabroso e superfluo uscire fuori da quella
mentalità semplificata che della mera sopravvivenza ha fatto il suo grido
di battaglia e, in barba a qualsiasi sacralità, ha rinunciato al diritto alla prossimità e
alla libertà dell’esplorazione per poter
sconfiggere il nemico coronato?
Non si ricomincia mai nel solco della continuità.
Questa profonda, dolorosa, inaspettata interruzione che ha portato via tante persone che avrebbero potuto dare ancora tantissimo al genere umano è un cratere enorme, al di là del quale il mondo che ci aspetta non somiglierà mai più a quello che abbiamo vissuto prima della pandemia.
È stato
un evento epocale, una di quelle vicende che segnano i pareri degli storici in
modo ambivalente, ma che si configura comunque come uno spartiacque
ineludibile, oltre il quale la storia dell’uomo non sarà mai più come quella
che è stata raccontata fino al principio del 2020.
Cosa è precisamente emerso in questo momento storico così delicato e spaventoso che abbiamo vissuto e stiamo vivendo?
Possiamo già tentare di metterlo a fuoco?
Probabilmente è azzardato, ma voglio
provarci:
1) L’uomo non deve né può più
disobbedire alle leggi della Natura e tentare di sottometterla al suo scopo,
ignorando la complessità del suo equilibrio.
La hybris che pesa
sulla nostra coscienza è un po' come la nuova mela di Eva. L'essere umano dopo
il covid dovrà per sempre fare i conti con questo peccato che origina la nostra
nuova era.
2) Ci servono nuove, precarie certezze
che la società liquida non pare offrire.
I naufragi del senso, del linguaggio,
della speranza, della certezza devono terminare. Bisogna avere moltissima
pazienza e procedere con sguardo vergine in cerca di innocenti zattere di
salvataggio da questo mare di angoscia e preoccupazione in cui le nostre vite
private, spezzate tutte in un modo o nell'altro, monche di qualcosa, sia un
pezzettino o una salda radice o un tenero germoglio, in fondo sono.
3) Occorre un nuovo senso di responsabilità.
Solo a partire dalla nostra comune e riconosciuta fragilità, che azzera le
distanze tra gli esseri umani, possiamo tentare di ridisegnare un essere umano
capace di prendersi cura del mondo che abita in maniera responsabile, ma di una
responsabilità che, nella solennità dell’impegno da cui nasce, non ha paura di
riconoscere l’urgenza di tenerezza, cedimento, distrazione transitoria etc.,
che vanno perdonate perché umane, troppo umane e, perciò, da comprendere e
rispettare, mai giudicare in modo lapidario o, peggio, offensivo.
4) Siamo connessi.
Totalmente. Sempre. Nessuno ha mai potuto salvarsi da solo e men che mai potrà
farlo adesso.
E allora celebriamo insieme di nuovo l’amicizia, la philìa, il tempo condiviso con persone a cui vogliamo tanto bene e che trascurare di questi tempi accade troppo spesso.
Abbandonarsi senza alcun timore all’allegria in compagnia ormai è diventato assai arduo.
Siamo costantemente frenati, imbrigliati nell’ansia che tutta la gioia possa rivelarsi la causa di un male imminente e catastrofico.
Questo è il segno più profondo che ci sta lasciando questa pandemia: una diffidenza permanente ed un senso di colpa per ogni momento di “spensieratezza”, non eccessivamente cautelato.
Come se non fosse mai più possibile vivere con pieno slancio più niente, senza poi dover convivere con il timore di aver esagerato, che forse bisognava evitarlo.
Questo magari è fondamentalmente il mio pensiero, ma credo
di non essere la sola a convivere con queste esitazioni frustranti.
Inibire le relazioni sociali non
può essere un meccanismo efficace per preservare la salute, però, perché è
proprio nelle relazioni, nella convivialità, nell’apertura al nuovo, nella
scoperta di altri mondi, altri luoghi, altre storie che si nasconde la chiave
della guarigione dell’homo sapiens, le cui capacità di astrarre,
rappresentare e comunicare l’astratto da una parte e la tendenza ad accumulare -diventando
prepotente come nessun altro- dall’altra, sono tra le caratteristiche
principali che lo distinguono dagli altri “homines” esistiti ed estinti prima.
5) Bisogna combattere il capitalismo,
figlio della seconda caratteristica, riconfigurandone uno nuovo, che può
davvero salvarci.
In questa tendenza ad ammassare, accatastare, ammucchiare senza posa che è propria più o meno di tutti noi, infatti, si cela anche un tesoro prezioso, che è l’inclinazione ad accumulare esperienze .
Raccogliere più esperienze possibili non per potersene vantare,
ma per fare i conti con tutte le infinite sfaccettature che permettono di
intendere un po' della radice dell’essere, del suo senso così sfuggente, ma
così reale e quasi tangibile quando siamo l’uno con l’altro e ci si racconta e
si ride insieme, malgrado la sventura che ci accomuna e l’estinzione sempre più
vicina.
Dovremmo dunque educarci ed educare ad un capitalismo simbolico, non di oggetti né solamente di libri e di serie tv, ma di esperienze da mettere in trama.
Un capitalismo non
violento, capace di tradurre la tendenza naturale all’accumulazione di beni
materiali in una ricerca sempre più spinta di aperture
all’alterità.
Coltivare il rispetto della natura e raffinare il piacere della compagnia senza posa, questo penso dovremmo fare.
Per risollevarci e per offrire speranze concrete di vita umana a tutti coloro che verranno domani, dobbiamo impegnarci perché l’orizzonte si faccia davvero comune. Individui emancipati devono smetterla di puntare gli occhi solamente sulle proprie paturnie esistenziali.
Occorre che gli sguardi si sollevino
insieme verso ciò che più conta salvare dalla distruzione innescata per ragioni
estranee all’infanzia, che ha tutto il diritto di godere dello splendore che
abbiamo ereditato e avremmo dovuto custodire e preservare instancabilmente,
perché è proprio quello splendore che dovrà illuminare le tenebre della nostra
ignoranza e della nostra miserabile ingordigia.
Là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, diceva Hölderlin. Speriamo avesse ragione.
Aguzziamo l’ingegno, apriamo
il cuore e procediamo ostinati insieme verso la salvezza del pianeta,
nell’ottica di un’universalità che nasce da una somma esponenziale di esperienze.
Chi è più ricco, in fondo? Colui che ha più viaggiato, più ha letto, più ha amato, più ha sognato. Anche se ha in tasca pochi soldi, forse nessuno.
Beati i ricchi di spirito, mi perdoni Gesù. E ci
perdoni la terra per averla massacrata senza pietà, la stessa che invochiamo
abbia lei per mantenerci suoi ospiti, troppo spesso ingrati, ma ancora,
speriamo, redimibili.
P.S.:
Una risata seppellirà anche gli sproloqui da parrino grasso come
questo, eppure sarebbe bello che qualcosa di queste elementari, in certi punti
fin troppo retoriche considerazioni, ogni tanto riuscissi a ricordarle come
lezione preziosa, tratta da questa nostra epoca tarda, virulenta, ma
soggetta a continue variazioni del possibile e dell'impossibile.
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